Le politiche autoritarie del governo eritreo e il rapporto problematico con i suoi cittadini è spesso all’attenzione dell’opinione pubblica internazionale.
In questi giorni fa scalpore l’arresto di abune Fikremariam Hagos, vescovo cattolico di Segheneiti, culla della diffusione del cattolicesimo nel paese, devastata nelle ultime settimane dalle operazioni di reclutamento forzato di uomini di ogni età da inviare in Tigray, a dar manforte all’esercito etiopico nella guerra civile che si combatte da ormai due anni nella regione.
L’arresto del vescovo, senza motivazioni dichiarate com’è costume del governo di Asmara, può essere interpretato certamente come un segnale alla Chiesa cattolica, rimasta ormai l’unica voce critica all’interno del paese. Più di una volta i vescovi hanno denunciato in modo puntuale ed autorevole le politiche che hanno messo in crisi il paese e motivato alla fuga una buona parte della popolazione.
Il reclutamento forzato, il servizio nazionale obbligatorio senza una durata certa, le detenzioni forzate, l’economia saldamente tenuta nelle mani del partito unico al governo, la difficoltà di trovare un lavoro con cui si possa mantenere dignitosamente la propria famiglia, l’impossibilità di costruirsi un futuro contando sulle proprie capacità e sulla propria intraprendenza, sono alla radice dell’esodo dal paese.
Centinaia di migliaia di giovani e non più giovani, uomini e donne, famiglie intere, nel corso degli ultimi vent’anni hanno cercato un futuro altrove, mettendosi spesso nelle mani di trafficanti senza scrupoli e rischiando, consapevolmente, la vita nel pericolosissimo viaggio.
Ma una volta arrivati alla méta che si erano prefissati, devono constatare di essere ancora saldamente nella rete di quel governo a cui pensavano di essere sfuggiti.
Un sistema di sorveglianza
Le ambasciate eritree, infatti, più che rappresentanze al servizio dei propri cittadini all’estero, sono diventati enti per il controllo, se non per un vero e proprio ricatto, di chi deve rivolgersi ai loro uffici.
Ad esempio, per accedere ai servizi consolari – richiesta e rinnovo del passaporto, procure, legalizzazioni di firme e documenti, ecc… – devono dimostrare di aver pagato una tassa del 2% sul loro reddito, anche se maturato all’estero. Ѐ interessante sapere che pochissimi altri paesi, tra cui gli Stati Uniti, hanno un simile regolamento, ma applicano numerose detrazioni che non sono previste per gli eritrei.
Se sono profughi o richiedenti asilo devono anche firmare una dichiarazione in cui si dicono “pentiti” di aver commesso il crimine di aver lasciato il paese illegalmente senza aver assolto ai loro doveri, e il riferimento è al servizio nazionale evitato o abbreviato con la fuga.
Le autorità consolari di fatto “estorcono” una dichiarazione che potrebbe addirittura essere motivo di rifiuto dell’asilo. Inoltre, su chi si presenta all’ambasciata senza essere a posto con le richieste delle autorità, pende sempre come una spada di Damocle il timore di ritorsioni verso i familiari rimasti in Eritrea, di cui esistono ormai numerosi esempi e un lunghissimo elenco.
L’Europa e il “caso” Germania
Ma forse qualcosa sta cambiando. Alcuni giorni fa un tribunale amministrativo federale tedesco (paragonabile al nostro Tar) ha emesso un importante giudizio che riguarda proprio i rapporti tra gli eritrei nella diaspora, e in particolare i profughi, e la loro ambasciata in Germania.
Ha infatti stabilito che ai richiedenti asilo e ai profughi eritrei dovrà essere rilasciato un documento di viaggio tedesco e ha chiarito che la decisione è giustificata dalla necessità di sottrarli al ricatto della confessione di un “crimine” che crimine non è, se non per un governo che cerca in questo modo surrettizio di affermare una presa sui propri cittadini che non riesce più ad esercitare sul territorio nazionale.
Numerose prese di posizione si sono anche avute nel corso degli anni sulla legittimità della richiesta del versamento del 2% del reddito, conosciuto tra gli eritrei come “tassa della diaspora” e sulle modalità della sua riscossione.
Una ricerca commissionata dal governo olandese nel 2017 e basata su interviste ad eritrei residenti in sette paesi europei tra cui l’Italia, dice che le basi legali dell’imposta sono dubbie. Il provvedimento è fondato su un proclama del 1995 che non chiarisce né gli obiettivi, né le modalità, né i soggetti e gli oggetti dell’imposizione.
Inoltre, non è stato portato alla discussione del parlamento, che non esiste, in un paese che non ha neppure una costituzione a quasi trent’anni dall’indipendenza. Nel proclama poi, non sono dichiarati gli usi dei fondi così raccolti.
Non ci sono perciò garanzie che in passato non fossero usati anche in violazione delle risoluzioni 1907 e 2023 del Consiglio di sicurezza dell’Onu che fino a novembre 2018 imponevano l’embargo sull’acquisto di armi. Infine le modalità della riscossione sono ricattatorie e questo non è accettabile in generale, ma in particolare in paesi dove vige la certezza del diritto.
Il rapporto conferma che la riscossione della “tassa della diaspora” è parte di un sistema preciso di sorveglianza operato da ambasciate in cui c’è una massiccia presenza di personale non diplomatico – un riferimento fin troppo chiaro ad agenti dei servizi di sicurezza – con il compito di controllare i propri cittadini e scoraggiarli dal partecipare ad azioni di critica e opposizione nei confronti del governo.
Anche i metodi di trasferimento della tassa in Eritrea sono spesso ai limiti della legalità. In Olanda, ad esempio, la riscossione è illegale dal 2016. Sarebbe interessante sapere con quali mezzi ora i numerosi eritrei che risiedono nel paese sono costretti a versarla, perché certamente non ne sono stati esentati dalle loro autorità.
Anche in diversi altri paesi – Germania, Svezia e Svizzera, tra gli altri – è in discussione, mentre in Canada diversi anni fa un funzionario dell’ambasciata eritrea a Toronto è stato espulso per essere stato trovato mentre aggiungeva un balzello al già pesante 2%.
E in Italia? La riscossione della tassa è permessa e non ci sono commenti delle nostre autorità sui metodi, spesso vessatori, utilizzati. Nessun commento, almeno conosciuto, anche sul fatto che, al fiume di denaro che affluisce nelle casse del governo eritreo dall’ambasciata di Roma, corrisponde un flusso costante di profughi che arrivano sulle spiagge del nostro paese.
Il rapporto citato sopra afferma infine che le modalità di controllo e di sorveglianza dei cittadini eritrei nella diaspora finiscono anche per avvelenare i rapporti all’interno delle comunità residenti all’estero e per rendere difficoltoso il loro inserimento nel paese in cui hanno scelto di vivere.
Una grave responsabilità che si somma a quelle per le politiche autoritarie applicate nel paese, che hanno finito per far saltare il patto sociale su cui si fondava la coesione della popolazione e avrà ripercussioni a lungo nella storia dell’Eritrea.