Angelo Del Boca, lo storico torinese che, per primo, tra mille difficoltà e ostilità, ha avuto il coraggio e la tenacia di aprire gli archivi del colonialismo italiano, che ne ha demolito il mito, che ne ha rivelato la crudeltà e l’immensa tragedia, oggi affronta la biografia di Muammar Gheddafi.
Il libro non è né un’agiografia, né una condanna: forse per la prima volta si parla del leader libico senza indulgenze né pregiudizi. È un grande, avvincente resoconto storico. Di una storia ancora apertissima, anche verso l’Italia. Da Nigrizia di aprile 1998.
Del Boca ha raccontato in cinque volumi la storia degli italiani in Africa orientale, ha dedicato due libri agli italiani in Libia, ha ripercorso la vita del “re dei re” dell’Etiopia, il negus Hailè Selassié. Adesso narra di Gheddafi. Di un personaggio contemporaneo, giovane, contraddittorio, intrigante, demonizzato dalla stampa americana e occidentale, imprevedibile. È una nuova sfida: Del Boca, che con altri storici (Giorgio Rochat, Nicola Labanca) ha mandato in frantumi il tabù del silenzio sul colonialismo italiano, infrange un’altra cortina di luoghi comuni e parla da storico, da cronista, da narratore del più controverso fra i leader arabi e africani.
La storia di Gheddafi affonda le sue radici nel colonialismo italiano, non poteva essere ignorata. Lo storico parla con entusiasmo della sua ultima fatica: per anni ha raccolto meticolosamente ogni informazione, ogni frammento possibile, ha girato attorno al leader libico, ne ha seguito ogni evoluzione, ogni metamorfosi, ha intervistato decine e decine di personaggi che hanno vissuto da vicino l’avventura politica di Gheddafi.
Gli archivi ufficiali (italiani, libici, americani) sono ancora chiusi, sigillati alle ricerche di uno storico: Del Boca ha aggirato gli ostacoli e ha scritto un’opera aperta, non ha risolto interrogativi, ma non ha nascosto nulla della storia di Muammar Gheddafi. Infine lo ha incontrato, nella sua tenda, nel deserto della Sirte oppure nella caserma di Bab al Aziziyah a Tripoli, la stessa che fu bombardata dagli americani nella primavera del 1986.
Per ore Nigrizia ha parlato con Del Boca di questi incontri e della complessa costruzione di una biografia così tormentata.
Gheddafi, il demonio. Gheddafi, il pazzo di Tripoli. Gheddafi, simbolo del male. Perché l’America ha scatenato un’offensiva così violenta contro quest’uomo?
Vi è una ragione generale, quasi psicologica: l’America ha bisogno di un nemico, di un rivale da odiare. Gheddafi era un antagonista ideale, perché non appariva particolarmente pericoloso, era isolato, non aveva alleati potenti, la sua importanza era solo regionale. Mentre attaccare Assad, sicuramente compromesso con il terrorismo al pari di Gheddafi, era molto più rischioso: la Siria poteva diventare un nemico potente.
Gli Stati Uniti hanno veramente cercato di uccidere Gheddafi?
Vi hanno provato sul serio. Nel 1986 Reagan voleva la fine di Gheddafi e non aveva altra scelta che eliminarlo fisicamente. Per questo bombardò Tripoli. Reagan sperava anche che l’Egitto aiutasse i suoi progetti, ma Mubarak, per ben tre volte, nonostante i rapporti tesi con la Libia, la minaccia del terrorismo e il confronto aperto in Ciad, ha detto no, si è rifiutato di attaccare un paese arabo.
Nel bombardamento di Tripoli muore la figlia adottiva di Gheddafi, muoiono civili innocenti, ma il leader libico si salva. Cosa significa, per Gheddafi, il bombardamento della sua stessa abitazione?
È quasi un paradosso. Gheddafi ne esce con dolore, muore la bambina; la moglie, immobilizzata a letto, è salva per miracolo. Per lui sono stati momenti di terrore. Ma quel bombardamento provoca una svolta: il leader libico capisce che gli americani non hanno nessuna moralità. Possono colpire facendosi beffe delle regole internazionali. Gheddafi, con molte incertezze, comincia a cambiare, diventa più diplomatico, più moderato.
È anche confuso, vorrebbe vendicarsi, ma non ha ripensamenti. Da allora molte cose sono mutate nell’Africa del Nord, Gheddafi risolve le sue controversie con tutti i suoi vicini. Niente più ostilità con la Tunisia o con l’Egitto. Accetta la sentenza dell’Aia sulla controversia con il Ciad.
Dodici anni dopo le bombe su Tripoli, la Libia ha buoni rapporti con il mondo arabo e con l’Africa. Anzi vi è stato un notevole cambio di prospettiva: Gheddafi, che cercava l’unità araba, avvia una lenta, ma efficace politica verso l’Africa nera. Proprio in questi mesi il progetto di un’unione economica degli stati del Sahara ha fatto passi avanti. A Tripoli si sono ritrovati più volte capi di stato e ministri dei paesi sahariani. È un progetto che va avanti rapidamente e, se arriverà in porto, riguarderà 140 milioni di africani. Gheddafi potrebbe realizzare, con la forza dell’economia, quel progetto che, nei primi anni ’80, aveva cercato di imporre con le armi invadendo il Ciad.
Non è troppo ottimista? Gheddafi ha alle spalle innumerevoli tentativi falliti di unificazione con paesi arabi.
La Libia, questa volta, non vuole un’unione politica, vuole creare uno spazio economico comune. Ogni stato mantiene la sua indipendenza e la sua sovranità. E Gheddafi ha assegnato alla Libia un compito fondamentale in questa unione dei paesi del Sahara: costruire le infrastrutture, le strade, le ferrovie che attraverseranno il deserto, che allacceranno gli stati privi di sbocco al mare al Mediterraneo. Ha già messo a disposizione i suoi porti e i capi di stato africani potrebbero crederci.
Gheddafi è l’uomo che ha voluto il Grande Fiume, che ha investito 25-30 miliardi di dollari nella più imponente opera di questa fine secolo, un acquedotto di tremila chilometri che pompa l’acqua fossile del Sahara fino alla costa libica. E potrebbe davvero essere capace di realizzare altre colossali infrastrutture, ne ha la forza, il denaro, le capacità tecnologiche.
Un risultato, in ogni caso, lo ha già ottenuto: la Libia è rientrata nei grandi giochi geopolitici dell’Africa e ha come alleato Nelson Mandela, il leader più rappresentativo dell’Africa di fine secolo. Un grande vecchio che può anche permettersi di rimproverare il giovane Gheddafi, di parlargli come si fa a un figlio discolo, di invitarlo a un maggior realismo, di chiedergli di parlare meno.
Come sono i rapporti con l’Italia?
Buoni, buonissimi. Un trattato di cooperazione e amicizia siglerà questo nuovo periodo. E vi sarà compreso tutto: rapporti politici, economici, la costruzione del gasdotto da Tripoli alla Sicilia, i collegamenti marittimi con Catania. Gli americani si arrabbieranno, proveranno a boicottare la politica della Farnesina, ma l’Italia ha già infranto le regole dell’embargo.
Il ministro Dini ha ricevuto il suo collega libico, lo sblocco dei capitali libici in Italia ha consentito a Tripoli di acquistare, per 410 miliardi, il 5% del Banco di Roma. È un dialogo vero, una realpolitik prudente. A Tripoli operano decine e decine di imprenditori italiani, la Snam costruirà il gasdotto, un terzo delle nostre importazioni petrolifere proviene dalla Libia.
Certo, Gheddafi non risparmia niente all’Italia, ma i toni, oggi, sono più smorzati, più moderati, non ci sono più gli insulti che lanciava contro di noi solo due anni fa.
E su molti punti Gheddafi ha ragione e noi siamo in torto. L’Italia non ha ancora pronunciato una condanna morale di quanto ha fatto durante gli anni del fascismo in Libia. Scalfaro ha ammesso le colpe italiane in Etiopia, mi auguro che ripeta le stesse parole per la Libia, che sia capace di chiudere anche questa pagina terribile del colonialismo italiano.
Gheddafi pretende che l’Italia provveda a sminare i deserti orientali che aveva disseminato di ordigni per combattere la resistenza libica: non ha avuto ancora soddisfazione. Anzi una prima mappa dei campi minati è riuscito a ottenerla, ma dalla Germania, non da Roma. Infine, vuole il pagamento dei danni di guerra e io sono convinto che nel nuovo trattato fra Italia e Libia, che potrebbe firmare lo stesso Gheddafi, vi saranno intese su questo sacrosanto risarcimento.
Vuol dire che prevede una fine imminente delle sanzioni contro la Libia?
Osservo solamente che il Vaticano, il Sudafrica e l’Italia stanno operando perché si arrivi a una soluzione, perché un embargo ingiusto venga cancellato. E osservo anche che la Francia non è più fra i paesi che ne chiedevano la conferma. Al contrario Chirac sta facendo pressioni sugli Usa perché ci ripensino.
Lei ha scritto un’attenta biografia di Hailè Selassié, dalla quale traspare anche simpatia verso il vecchio sovrano. Con Gheddafi questo rapporto non è possibile.
È vero. Certo, non ignoravo gli scheletri nascosti nella storia di Hailè Selassié, ma ero affascinato da questa figura. Potevo essere suo figlio. Qui il rapporto è rovesciato, io ho una figlia che ha quattro anni meno di Gheddafi. Non potevo non scrivere questo libro perché Gheddafi fa parte della storia del colonialismo italiano. È l’uomo che fa raccogliere centomila testimonianze sulle brutalità fasciste in Libia. Suo nonno è stato ucciso dagli italiani, suo padre ferito, molti altri suoi parenti sono stati vittime del fascismo.
Ma non potevo provare simpatia per il personaggio anche se, da storico, avevo ben chiaro un impegno: dovevo spogliarmi di ogni punto di vista europeo o occidentale. Gheddafi è un leader arabo, musulmano, agisce e si forma in un mondo africano e mediorientale in piena crisi di identità. Gheddafi è un nazionalista e la Libia non aveva conosciuto, complice la monarchia di re Idris, nessun sussulto o orgoglio nazionalista, come era, invece, accaduto in Egitto, in Tunisia o in Algeria. Il mio compito non era, e non è, denigrare Gheddafi, ma capirlo, cercare di comprenderne i comportamenti e le decisioni.
Gheddafi prende il potere nel 1969, spodesta una monarchia corrotta e inetta. È giovanissimo e sconosciuto. Cos’è la rivoluzione di Gheddafi?
Gheddafi era giovane, ma non sprovveduto. Si stava preparando da anni, ascoltava le radio arabe, il suo esempio era Nasser. Era un nazionalista e doveva creare una nazione libica che ancora non esisteva. Sapeva di dover fare subito tre cose e le ha fatte. Prima chiude le basi militari americane e inglesi, restituendo la sovranità al paese. In pochi mesi, già nel 1970, i soldati stranieri sono costretti a lasciare la Libia. Poi, in tre anni, riesce a recuperare le chiavi della sua economia, cioè del petrolio.
Idris si accontentava delle briciole della ricchezza libica: un miliardo di dollari l’anno. Gheddafi, già nel 1981, fa affluire nelle casse dello stato ben 23 miliardi di dollari. E allora i libici non erano che due milioni e mezzo di persone. Terza operazione: la cacciata degli italiani. Un fatto doloroso per gli italiani che l’hanno subito, ma Gheddafi non poteva non farlo. Forse una politica più accorta dell’Italia avrebbe evitato l’esodo, ma Roma non capì Gheddafi, Aldo Moro non fece nessun gesto verso il nuovo leader libico e ventimila italiani dovettero andarsene.
Sono passati quasi trent’anni: il progetto è riuscito?
La Libia ha fatto grandi passi avanti, ma Gheddafi non è soddisfatto. Riconosce i suoi errori e durante un colloquio mi ha confessato la sua amarezza di non essere riuscito ha trasformare il paese. La Terza Teoria Universale, caposaldo della sua elaborazione politica e filosofica, è fallita. Ha ammesso: <<La Libia non è un paese verde come volevo. È ancora un paese oscuro>>.
Gheddafi è un fondamentalista?
È stato il primo fondamentalista. Lo era nel 1970, molto prima dell’esplosione dell’islam radicale. Ma quando il fondamentalismo è diventato un pericolo, non ha esitato a condannarlo e a combatterlo. Nel 1996 ha chiuso la Cirenaica per dei mesi e ha scatenato un’offensiva contro quei fondamentalisti armati che si annidavano nelle stesse gole nelle quali si nascondevano i patrioti libici che resistevano agli italiani. Il fondamentalismo è, oggi, l’unica minaccia contro Gheddafi.
Nel 1987 rompe duramente con la gerarchia musulmana. Ma Gheddafi rimane un uomo religioso, un capo religioso. Ha una conoscenza vastissima ed erudita del Corano. Ne esalta i valori, non è un laico, ma il suo potere non poggia sul “clero” musulmano. Solo quando è in difficoltà, Gheddafi minaccia di introdurre la shari’a, la legge islamica, ma non vi ha mai realmente pensato. A Tripoli non si tagliano le mani, la giustizia è civile. Anzi l’ultima metamorfosi di Gheddafi è sorprendente: si considera l’estremo difensore dell’Occidente.
Si può sorridere, ma il fondamentalismo è in Algeria e in Egitto. La Tunisia non è certo tranquilla. E nemmeno il Marocco è al sicuro. Se Gheddafi dovesse arrendersi alla deriva fondamentalista, l’Occidente correrebbe molti più rischi. No, Gheddafi non ha torto quando si definisce “difensore” della nostra civiltà.
Il suo potere si regge sull’esercito?
Fino a un certo punto. Non dimentichiamo che ha cercato, fallendo, di smantellare l’esercito per creare un’armata popolare. L’esercito libico, oggi, è composto da 65.000 uomini nelle tre armi, dotati di un arsenale capace di armarne dieci volte tanti. Ma sono anche soldati che hanno subito sconfitte in Ciad e hanno perduto una parte importante dei loro mezzi.
No, io credo che Gheddafi abbia ancora un forte consenso fra i giovani, fra i veri musulmani, fra le donne alle quali ha concesso diritti spesso negati in molti stati arabi. E poi vi sono i comitati popolari e la burocrazia statale: sanno bene che il giorno in cui Gheddafi cade, anche il loro potere svanisce. Gheddafi vive la sua vicenda personale e la storia della Libia come un processo in continua evoluzione, come se affrontasse le difficoltà giorno per giorno ed elaborasse di continuo nuove politiche.
Sulle cartoline che i turisti comprano a Tripoli vi è uno slogan: «Democracy aborts party system»…
Gheddafi ha chiarito che la formazione di partiti in Libia è prematura. Sarebbero solo espressione di clan tribali. Sta puntando molto sui sindacati, sui gruppi professionali. È come se volesse ricreare, in un paese arabo, uno stato delle corporazioni.
Mi sta disegnando la Libia come un laboratorio di una singolare esperienza politica.
È così. Gheddafi non vuole perdere il potere. Per stare a galla cambia spesso, e radicalmente, opinione, lancia dei programmi, eccita gli animi, ma quando si accorge che la situazione sta per sfuggirgli di mano, rallenta, compie degli aggiustamenti. E alla fine la Libia è un paese quasi democratico: il parlamento libico, anche se si riunisce una sola volta l’anno a Sirte, ha la forza di bloccare decisioni dello stesso Gheddafi. Magari in senso restrittivo, ad esempio non ha abolito la pena di morte o riconosciuto più diritti alle donne come il leader aveva chiesto.
Gheddafi è impulsivo: fa abbattere le dogane con la Tunisia perché vuole l’unità araba, negli anni ’80 ha fatto demolire le prigioni di Tripoli. Sono atti radicali, la retromarcia, poi, è inevitabile.
Gheddafi non ha cariche nella Libia di oggi. È vero?
No, non del tutto. Ha rinunciato alla carica di capo della stato perché voleva dedicarsi a scrivere il Libro Verde. Ma ha conservato leve importanti del potere: gli organismi che manovrano l’economia fanno direttamente riferimento a lui. È un gioco delle parti.
Gheddafi beduino. Solo immagine? Solo folclore?
No. Gheddafi crede nel deserto. Odia la città, detesta i mercanti di Tripoli e Bengasi. Quando lo ho incontrato mi ha parlato a lungo della tenda, della storia della tenda. Riceve i suoi ospiti più importanti nella sua tenda. Appena può si rifugia a Qasr Bu Hadi, vicino a Sirte, nel villaggio dove è nato e dove l’Italia ha subito una sconfitta ancor più pesante che ad Adua.
Gheddafi ha armi chimiche?
Credo di sì. Un centinaio di tonnellate di iprite, forse più. Sono state fabbricate a Rabtah. Quando si accorse che questo impianto poteva essere un bersaglio americano, Gheddafi ha ordinato il trasferimento dell’arsenale chimico a Tarhunah. Questo ha creato il sospetto che le gallerie costruite per il Grande Fiume, che attraversa la zona di Tarhunah, potessero essere utilizzate come deposito di armi chimiche. Io non credo, si tratta di propaganda americana.
Ma proprio i libici che hanno sperimentato sulla loro pelle, settant’anni fa, i gas italiani, non dovrebbero possedere queste armi. Non dimentichiamo che in Medio Oriente l’Iran ha armi chimiche, l’Egitto ne ha altrettante e l’Occidente non ci trova niente di male. Israele ha centinaia di atomiche. Gli Usa hanno 38 mila tonnellate di gas tossici. Posso capire Gheddafi. Il leader libico sta cercando di avere dall’Iran anche missili Scud con gittata di oltre duemila chilometri: avrebbe sotto tiro tutta l’Europa.
Gheddafi terrorista. Ancora una volta: è vero?
Gheddafi, nel 1992, ha dichiarato di voler chiudere qualunque rapporto con il terrorismo. È un’ammissione su quanto aveva fatto precedentemente. Quattordici omicidi compiuti fuori della Libia, molti in Italia, fra il 1980 e il 1983, sono sicuramente una sua responsabilità: erano uomini d’affari libici, commercianti, trafficanti di denaro, oppositori. In quegli anni Gheddafi stilò una lista di 800 avversari che non avevano alternative: riconoscere i propri errori e sottomettersi, oppure essere perseguitati ovunque. Una cinquantina di queste persone rientrò in Libia e sfilò a Bengasi chiedendo il perdono di Gheddafi.
Vittima delle squadre di Gheddafi è sicuramente Mansour al Kikhiya, segretario generale dell’Alleanza nazionale libica, l’unico oppositore che poteva creargli qualche problema: scomparve dal Cairo nel 1993 durante una conferenza sui diritti dell’uomo in Libia. Non se ne è saputo più nulla.
Quando mi sono trovato nella tenda con Gheddafi ho pensato a tutto questo, a quanto sapevo, a quanto ignoravo. Come potevo provare comprensione? Non perdono niente a Gheddafi.
Nel 1987, dà ospitalità a Carlos e ad Abu Nidal, il terrorista più pericoloso del Medio Oriente. Ne organizza i campi di addestramento in una località a 170 chilometri da Tripoli. Abu Nidal trasferisce in Libia quattrocento dei suoi uomini. Ma non si sente sicuro, teme una ribellione interna e ordina l’uccisione di 160 appartenenti al suo gruppo. Gheddafi non può non accorgersi di questo eccidio. Come non può ignorare che le vittime di Abu Nidal siano quasi sempre palestinesi, fino al punto da dare quasi ragione a chi sostiene che questo terrorista arabo è, in realtà, solo una pedina di Israele.
In quegli anni sono tredici o quattordici i campi di addestramento in Libia: terroristi tunisini, tuareg maliani, fondamentalisti egiziani, tutti sono sponsorizzati da Gheddafi. Poi il leader libico cambia politica. Nel 1992 ordina la chiusura di tutti i campi. Ma questo non evita la scomparsa di Kikhiya. E, soprattutto, dov’è Abu Nidal? È quasi certo che sia ancora a Tripoli, che Gheddafi possa utilizzarne ancora i servigi. È come avere una pistola puntata contro i propri nemici. Se Gheddafi vuole davvero dar prova di aver rinnegato il terrorismo deve cacciare Abu Nidal da Tripoli o permetterne la cattura.
Gheddafi e Israele.
Ho provato ad affrontare l’argomento. Ho dovuto rinunciare. Perdevo tempo. Per Gheddafi Israele è un cancro. Gheddafi vuole uno stato palestinese e potranno rimanervi solo gli ebrei nati in Palestina. Gli altri dovranno essere cacciati. Azzarda anche dei paragoni: l’Italia non accetta certo che tutti i cattolici si trasferiscano a Roma. L’Arabia non pretende che i musulmani vivano alla Mecca. Perché, chiede con durezza, Israele e gli ebrei devono essere un’eccezione?
Cosa pensa del Libro Verde e della Terza Teoria Universale?
Nel 1973, a Zuwarah, Gheddafi compie un passo decisivo: rompe con la collegialità delle decisioni, si incrina il rapporto con il gruppo di ufficiali che fino ad allora aveva condotto la rivoluzione libica. È fallita l’unione con l’Egitto, i rapporti con Sadat, che sta preparando la svolta di Camp David, sono tempestosi.
Gheddafi si sente in difficoltà e decide di dare una svolta ancor più radicale alla rivoluzione: denuncia il boicottaggio della burocrazia dello stato, l’apatia dei giovani, il fallimento di ogni tentativo di cambiamento. È come se annunciasse una nuova rivoluzione: dà il via a una nuova struttura dello stato, proclama la nascita dei comitati popolari.
Ma una nuova Libia, una struttura statuale mai esperimentata prima, ha bisogno di una teoria altrettanto rivoluzionaria. Le 140 pagine del Libro Verde sono il fondamento, in campo politico, economico e culturale, del nuovo corso. Gheddafi sistematizza le sue idee. È un uomo di buone letture. Le influenze di Jean-Jacques Rousseau sono evidenti.
Il contratto sociale, scritto due secoli prima, è ancora di attualità per la Libia. Il Libro Verde risente di innumerevoli letture e ideologie: il nazionalismo, i progetti sociali del fascismo, il fondamentalismo musulmano, la costruzione statuale di Salazar, le idee di Chamberlain. Chiarissime sono le ispirazioni che si rifanno al nazionalista premaoista Sun Yè Tzeng.
In più Gheddafi non dimentica che la Libia è un paese arabo e africano. Il Libro Verde, nonostante queste origini ibride, è una costruzione intelligente e originale. In alcuni passi, come la condanna della partitocrazia o la crisi della democrazia, perfino preveggente. Ma la Terza Teoria Universale non ha ancora cambiato la Libia.
Quale sarà il futuro di Gheddafi?
Le posso solo riassumere le parti conclusive del libro, una biografia incompiuta. Gheddafi è vivo, lucido, nel pieno delle sue energie, deciso a mantenere il potere a ogni costo. In più è imprevedibile. Completamente. Ha detto tutto e il contrario di tutto. Io non voglio dare giudizi conclusivi. Ripeto: non ho perdonato niente a Gheddafi.
Il leader libico ha 55 anni, può governare per altri vent’anni. Oggi solo Hassan II del Marocco, in Africa, è più longevo di lui. Gheddafi potrebbe regnare più della stessa regina Vittoria. Ma non so dirle il futuro di un uomo che ha sempre detto di non volere ricchezze per sé, di un leader che racconta di essere nato in una tenda e di volervi morire.
Posso solo dire che in quest’Africa del 2000 molti leader cercheranno di imporre il proprio modello. Penso a Mandela in Sudafrica, a Museveni in Uganda, a Dos Santos in Angola. Anche Gheddafi ha un suo modello, per lui si apre la possibilità concreta di una nuova, esaltante esperienza a livello continentale. Solo il tempo potrà dire se la Terza Teoria Universale può varcare i confini della Libia e sopravvivere al suo ideatore. Una cosa è certa: Gheddafi è nuovamente un protagonista delle vicende del mondo arabo e del continente africano.