Sono dodici le storie di donne africane e afrodiscendenti raccontate in questo libro che vede insieme due giovani studiose che, partendo dalle loro ricerche universitarie e dall’ascolto, arrivano a tracciare Il peso del colore.
Quel peso che contraddistingue le vite delle donne nere in Italia, donne che le autrici hanno incontrato a Torino e Verona, scandendo le caratteristiche di una presenza in un mercato come quello del lavoro, sempre più “genderizzato” ed “etnicizzato”.
Uno stato occupazionale confinato quasi esclusivamente nei regimi del welfare e della cura, in cui poco contano titoli di studio, ambizioni e aspirazioni: il peso del colore sembra non concedere altre possibilità.
Perché se è vero che certi ambiti lavorativi sono preclusi al mondo femminile, è ancora più vero che, se quel mondo ha un colore della pelle più scuro, la preclusione si allarga in una prospettiva intersezionale che allontana, come una spirale di cerchi concentrici, le possibilità di accedere a occupazioni che non siano modeste, poco remunerate, spesso faticose.
Una preclusione che le autrici fanno partire da una nozione che si diffonde negli anni Settanta con il Black women’s manifesto, quella dell’intersezionalità, che mescola insieme l’appartenenza a un genere, a un colore, una religione, una classe sociale, e che finisce per amplificare la discriminazione cui si è soggette e per differenziarla dalla discriminazione che accomuna le donne occidentali che rivendicano, con il loro femminismo, un’uguaglianza che tardano a riconoscere come ancora più mutilata tra le black women.
Attraverso questa lente, Galante e Santero esplorano ostacoli e limiti, raccolgono materiale qualitativo e quantitativo per elaborare la loro analisi su una presenza storica nel nostro paese: i circuiti migratori al femminile, provenienti dall’Africa subsahariana e dal Corno d’Africa sono infatti tra i primi a strutturarsi in Italia, soprattutto quelli che partono dalle ex colonie, Eritrea e Somalia in primis.
Rispondono a una necessità del mercato del lavoro che si femminilizza e chiede alle donne migranti una sostituzione in quell’occupazione che, ieri e oggi, per cultura, sembra essere destinata a essere appaltata esclusivamente a un unico genere: la cura familiare e domestica.
Dalle prime donne migranti, funzionali a una necessità, che finiscono per incrementare un welfare invisibile e spesso sommerso, perché irregolare, lo sguardo del libro si allarga verso le ragazze arrivate da bambine in Italia o nate qui per sottolineare le differenze di percorso, di consapevolezza.
C’è infatti un passaggio dalla dequalificazione alla (ri)qualificazione e al posizionamento di alcune tra queste donne, che spesso si avvale della rete femminile di sostegno che si viene a creare nel tempo e che diventa la possibilità di smarcarsi da una traccia di vita che sembra consolidata.
Tante, dopo essere passate attraverso lo sfruttamento, hanno cercato percorsi di riqualificazione professionale, hanno compreso come l’indipendenza economica è condizione fondamentale per smarcare non solo sé stesse, ma altre donne che vivono le stesse condizioni; hanno fatto tesoro delle barriere di inserimento e di attesa della cittadinanza che hanno vissuto per essere mediatrici delle difficoltà rispetto ad altre donne migranti; hanno sottolineato come spesso, nonostante le qualifiche, per certe posizioni lavorative, anche le più umili, incida il “blocco culturale” dei datori e datrici di lavoro che sentono il peso del colore.