Gli esperti hanno temuto a lungo che si allungasse sul Sudan l’ombra della guerra civile. La terza dall’indipendenza, del 1956. L’esplosione della violenza tra le forze armate del generale Abdel-Fattah al-Burhan – capo del Consiglio sovrano che governa il paese – e i paramilitari delle Forze di intervento rapido (Rsf) – guidate dal numero due della giunta, Mohamed Hamdan Dagalo (Hemetti) – ha materializzato quell’ombra.
Scriviamo queste righe quando lo scontro è particolarmente cruento. Con le diplomazie all’opera. E non sappiamo che deriva ci sarà. Tuttavia, a nostro avviso sono almeno tre le lenti con cui leggere ciò che sta accadendo: una rivalità personale; interessi geopolitici; il ruolo della società civile.
È innegabile che esiste una acerrima contesa tra al-Burhan ed Hemetti. Entrambi stanno lottando per rimanere al potere. La loro alleanza, dell’ottobre 2021, è stata un matrimonio di convenienza, finalizzato a estromettere i movimenti pro-democrazia dai giochi di palazzo e per far franare la fase di transizione.
L’attrito tra i due è riconducibile alla volontà di inquadrare nelle forze armate regolari gli uomini delle Rsf, eredi della milizia dei Janjaweed, i Diavoli a cavallo, autori di estesi massacri durante la guerra civile in Darfur, negli anni Duemila. I due generali, poi, rappresentano altrettanti centri economici nevralgici per il paese: l’esercito di al-Burhan controlla circa 250 aziende vitali per Khartoum; la ricchezza di Hemetti deriva, invece, dal controllo delle miniere d’oro.
Ricchezza di risorse e posizione geografica rendono il Sudan un paese strategico. E qui veniamo alla seconda lente. Ricco di minerali, di oro, di gas naturale e ferro, è al centro di interessi contrastanti nella regione. Confina con il Mar Rosso, il Sahel e il Corno d’Africa e si trova in una posizione privilegiata per il commercio con i paesi dell’Africa centrale, il Nordafrica e gli stati del Golfo.
Infatti, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti sono grandi investitori in Sudan, Israele ha stretto relazioni diplomatiche con Khartoum e l’Egitto è uno dei principali sostenitori delle forze armate del paese. E se Il Cairo venisse coinvolto nel conflitto, sarebbe tutta la regione a essere destabilizzata.
Mosca, poi, tiene il piede in due staffe: è in trattativa con il governo per costruire una base navale sul Mar Rosso, mentre il gruppo paramilitare Wagner aiuta Hemetti a estrarre l’oro. Con l’aggravarsi della situazione è convinzione degli analisti, anche occidentali, che l’unica via d’uscita potrebbe essere una diplomazia di alto livello che coinvolga i principali paesi arabi.
Ultima chiave di lettura: la società civile. In queste ore la sua voce è silente. Per paura. Ma siamo di fronte a un movimento che è stato di un’ampiezza e di una profondità enormi: protagonista della prima rivoluzione anti-islamista e a vocazione democratica che mai ci sia stata in un paese al 90% musulmano. Molto meglio organizzato di qualsiasi altra forza, anche dopo la caduta del despota El-Bashir, pur non avendo armi.
I suoi leader se ne stanno al coperto. Ma potrebbero, paradossalmente, anche rappresentare una porta per la speranza: questi militari hanno infatti dimostrato di non essere in grado di gestire il Sudan. E, dunque, a chi affidare le chiavi per la ricostruzione del paese?
Società civile
Ha dato il via al ciclo di manifestazioni, iniziate il 19 dicembre del 2018, che ha portato alla caduta della dittatura di Omar El-Bashir l’11 aprile 2019. Un movimento costituito da cittadini – professionisti, donne, giovani – che chiedono non solo un cambio di regime ma l’avvento di un nuovo ordine sociale