Sono accorsi in circa 5mila ieri a Verona per chiedere giustizia e verità per Moussa Diarra, il ragazzo maliano ucciso lo scorso 20 ottobre da un colpo di pistola sparato dalla Polizia Ferroviaria a Verona Porta Nuova. 5mila persone raccolte intorno alla rabbia e al dolore per l’ennesima morte causata, prima ancora che da un’arma da fuoco, dal razzismo istituzionale.
Un’accusa, quella di essere strutturalmente razzista, con cui l’Italia fatica ancora a fare i conti nonostante abbondino gli studi in merito, e a cui spesso reagisce con una negazione ad oltranza, tanto stizzita quanto cieca.
Ed è anche per questo che la giornata di ieri, 26 ottobre, è una data che d’ora in poi andrebbe segnata sul calendario. Perché il corteo che ha riempito le strade di Verona ha dato una risposta, ‘pacifica ma determinata’, in grado di mettere al centro l’umanità e la dignità di Moussa, imponendo una contro-narrazione rispetto a quella promossa dalle istituzioni finora. Il racconto di una persona la cui vita è stata segnata da un’escalation di violenza e di discriminazione che è culminata, ma certo non iniziata, nel suo assassinio.
La manifestazione, organizzata dall’Alto Consiglio dei maliani in Italia insieme a diverse associazioni veronesi che si occupano di marginalità, tra cui il laboratorio autogestito Paratod@os, ha richiamato nella città scaligera la diaspora maliana (e non solo) da tutta Italia.
Uno spettacolo emozionante. Bastava passare ieri mattina per Porta Nuova per vedere la stazione animata da sciarpe, bandiere, cartelli, magliette e tessuti di ogni sorta decorati con la bandiera del Mali.
Una corrente in movimento fatta di uomini e donne in cammino verso Piazza Bra, luogo di concentramento per la partenza del corteo che alle 14 ha visto confluire migliaia di persone, molte delle quali africane e razzializzate che hanno deciso di mettere al centro la propria voce nel far rispettare i diritti delle persone straniere in Italia.
Figure istituzionali, imam, responsabili di comunità, ma anche giovani in Italia da pochi mesi che hanno sentito di voler scendere in piazza per Moussa Diarra. Un unico coro deciso e fermo, fatto di consapevolezza politica e di rivendicazione dei propri diritti in quanto esseri umani.
Chiedere verità e giustizia per lui, infatti come si legge nel comunicato stampa rilasciato dagli organizzatori, ‘significa andare oltre l’accaduto in Stazione Porta Nuova e riconoscere un contesto discriminatorio che opprime le persone straniere attraverso pratiche illegittime e ostacolando l’accesso a diritti fondamentali’.
‘La nostra è una manifestazione pacifica’, ribadiscono più volte gli organizzatori. ‘Non facciamoci strumentalizzare, non siamo qui per la violenza, la violenza non ci appartiene. Siamo qui per dimostrare la nostra educazione e la nostra cultura. Siamo qui perché crediamo nella giustizia!’
Un invito a mantenere la calma nonostante la rabbia anche mentre il corteo passa di fronte al tribunale, alla centrale della Polizia locale, alla questura di Verona, questi ultimi in particolare scelti perché luoghi-simbolo del razzismo istituzionale che ha segnato la vita di Moussa e che continua a segnare quella di chi gli sopravvive.
‘Moussa potevo essere io’, gridano i dimostranti. Sì, perché chiunque sia o conosca qualcuno con un’esperienza migratoria alle spalle ha ben presente il peso psicologico ed emotivo della via crucis rappresentata dalle leggi italiane, dalla burocrazia, dalla marginalizzazione che deriva da una vita appesa a un permesso di soggiorno sempre più difficile da rinnovare.
Prima il Decreto Salvini nel 2018, poi il Decreto Cutro nel 2023, un susseguirsi di norme che rendono il cammino verso la regolarizzazione, già di per sé difficoltoso, un vicolo cieco che compromette tutti gli altri aspetti dell’esistenza, dallo sfruttamento lavorativo all’emergenza abitativa.
Una spinta sempre più forte verso l’invisibilità, una de-umanizzazione che, ricorda il corteo, fa sentire un ministro della repubblica legittimato a dire che il poliziotto che ha ucciso Moussa ‘ha fatto solo il suo lavoro’, emblema di un paese dove i problemi di carattere sociale vengono sempre più spesso affrontati come mero problema di sicurezza e ordine pubblico.
E dove l’epilogo tragico della storia di Moussa appare allora perfettamente in linea con le politiche migratorie italiane: ‘a un bisogno di cura’, recitano alcuni dei cartelli alzati, ‘si è risposto con un colpo di pistola’. Colpo di pistola che, tra l’altro, l’autopsia ha rivelato essere stato sparato non a distanza ravvicinata. Il segretario della Siulp, ripreso poi da amici e famigliari, ha parlato di cinque metri tra la vittima e la provenienza dello sparo. Dritto al petto. Ad altezza d’uomo.
Una verità che forse non sarebbe emersa se i famigliari di Moussa, sostenuti dall’Alto Consiglio dei Maliani in Italia e dalle associazioni del territorio non avessero istituito un comitato per animare una raccolta fondi e sostenere una contro-inchiesta che consenta di fare chiarezza sull’accaduto. E di tenere alta l’attenzione sulla sua storia. ‘Non ci fermeremo qui’, grida la piazza. ‘Continueremo a parlare di Moussa’.
La speranza è che l’eco della sua morte possa avere la stessa forza di quella di Jerry Masslo, attivista antirazzista sudafricano la cui uccisione portò a una svolta nel diritto dell’asilo in Italia nel 1990. E che possa segnare uno spartiacque nel rispetto dei diritti delle persone straniere in Italia. Perché, come detto ieri passando di fronte alle questura, ‘la nostra vendetta non è oggi. La nostra vendetta sono i nostri figli, che sorrideranno da italiani nel paese migliore che lasceremo per loro’.
Aggiornato in data 28/10/2024