Quando fu eletto, il presidente francese Emmanuel Macron non pensava di dover dedicare così tanto tempo all’Africa. Il suo programma era incentrato sull’Europa: un vero cambio di paradigma che sentiva necessario e che ha espresso in vari discorsi, da Strasburgo alla Sorbona.
Poi sono venuti i gilets jaunes a scombussolare lo scenario francese ed infine è giunta la pandemia che ha cambiato tutti i piani, paradossalmente facilitando alcune idee di riforma europea come quella della comunitarizzazione del debito (eurobond sotto forma di Next generation Eu).
Ma è stata l’Africa a farsi preponderante nell’agenda, assieme alla crisi nel Mediterraneo con la Turchia. Da qui una nuova riflessione a tutto campo dell’inquilino dell’Eliseo, basata sulla necessità di “autonomia strategica” di cui la Francia (con tutta la Ue) si deve dotare per uscire dal pantano.
Il Mali è stato un campanello d’allarme, ma non il solo: c’è anche il Centrafrica, il Senegal, il Ciad e poi il Corno e il Mozambico. La “storia d’amore” che Macron preconizzava con il continente su Jeune Afrique, e che aveva descritto a Ouagadougou davanti agli studenti del Burkina Faso, si è trasformata in un incubo: manifestazioni antifrancesi con saccheggi alle catene dei negozi transalpini, bandiere russe sventolate, atteggiamenti contraddittori dei maliani (“vi vogliamo per combattere i terroristi ma non per costruire il nostro paese”) e così via.
Nel suo tipico stile decisionista, Macron ha preso una decisione appena ha potuto, complici i due colpi di Stato a Bamako: ritiro della forza Barkhane e mantenimento solo delle forze speciali Sabre e Takouba (in quest’ultima c’è anche l’Italia). Un modo di dire agli africani: la responsabilità del controllo del territorio ora è soltanto vostra, noi ci limitiamo a colpire i capi terroristi.
Al medesimo tempo si punta all’europeanizzazione del dispositivo militare, con pressanti richieste agli altri Stati membri della Ue di partecipare. Paradossalmente, l’autonomia strategica parte dal Sahel: le operazioni non saranno più soltanto francesi. Vedremo se ciò significa che Parigi è pronta a condividere le scelte strategiche sul terreno. Macron si è trovato ad affrontare contemporaneamente l’improvvisa morte di Idriss Deby e la riconciliazione con il Rwanda.
Entrambi i dossier sembrano essere stati affrontati con successo. A N’Djamena Macron ha dovuto (probabilmente di malavoglia) compiere forse il suo ultimo atto da Françafrique: lodare un presidente-dittatore e avvallare un cambio di regime anti-costituzionale. Il tutto mirato alla stabilità di quest’enorme paese che è stato molto utile alla Francia in passato come fornitore di servizi militari, usati dovunque e anche in Mali.
A Kigali, invece, il presidente ha espresso il meglio di sé andando quasi fino in fondo al riconoscimento delle responsabilità francesi nella triste vicenda del genocidio del 1994. Il leader rwandese Paul Kagame, non sospettabile di simpatie filofrancesi, ha riconosciuto lo sforzo e chiuso definitivamente l’annosa polemica che lo divideva da Parigi.
Un vero successo per Parigi: ora i due paesi si parlano e collaborano. Su richiesta francese addirittura il Rwanda fornirà le forze militari per mettere in sicurezza il nord Mozambico (la provincia di Cabo Delgado) dove i jihadisti hanno portato il caos e provocato migliaia di vittime e 700.000 profughi.
In filigrana c’è un passaggio storico che si compie nel tragitto N’Djamena-Kigali: si passa da una vecchia formula in cui veniva privilegiata una relazione quasi in forma di “mercenariato” di zona (il pré carré francese), ad una in cui si ragiona in termini strategici continentali, senza tener più conto delle frontiere post-coloniali. La Francia è in mezzo al guado: il transito dalla Françafrique vecchia maniera ad una nuova relazione con il continente intero.
Il mondo è cambiato e anche l’Africa: Macron sta facendo ogni sforzo per farlo capire all’amministrazione francese ancora piena di incrostazioni del passato, così come agli alleati europei. Certamente l’aspetto più duro è convincere i militari transalpini, una vera forza d’influenza all’interno della république con la quale il presidente non ha mai avuto un buon rapporto.
Il caso del Ciad è da manuale: dall’indipendenza l’esercito francese vi ha compiuto sette interventi militari, il paese che in Africa ne ha subiti di più. A dimostrazione della sua attrattività per le elite militari francesi, dal 1960 al 1975 il Ciad ha beneficiato da solo del 40% di tutto l’aiuto militare francese sul continente. Molti alti ufficiali vi si sono formati alla guerra del deserto, in linea con la tradizione della Legione straniera.
Da sempre al ministero della difesa si è considerato il leader ciadiano Idriss Deby (giunto al potere nel 1990 con un colpo di Stato) come un antemurale in un quadro regionale particolarmente complicato e instabile.
Non sfugge che molto della politica africana della Francia in quell’area sia rimasta legata per lungo tempo alla “sindrome di Fachoda”, dal nome della località sudanese in cui i francesi vennero respinti dai britannici che non volevano nessun intralcio alla loro linea verticale coloniale “Cairo-Durban” (il sogno di Cecil Rhodes era di costruire una strada ferrata tra le due città).
Regimi come quelli di Deby sono stati sostenuti da Parigi come il “male minore” in situazioni spesso caotiche. Per esempio all’epoca della guerra del Darfur i ciadiani avevano securizzato la lunga frontiera con il Sudan, divenuta improvvisamente molto calda.
Non fu difficile per François Hollande nel 2012 associare le truppe ciadiane alle operazioni nel nord Mali per respingere il tentativo jihadista (non si sa ancora oggi quanto serio) di raggiungere Bamako. Così, anche per debito di riconoscenza, nel 2019 Macron concesse ai Mirage di bombardare una colonna ribelle che minacciava Deby, bloccandola prima di giungere a minacciare la capitale. Una vicenda simile si è avverata poche settimane fa, ma questa volta senza aiuto francese, ed è in tali circostanze che Deby ha trovato la morte, anche se non per mano ribelle.
Per tanti anni il singolare leader ciadiano è stato il migliore alleato di Parigi sul terreno, ma anche un compagno dal carattere difficile, machiavellico e facile alla relazione doppiogiochista. Spesso ha accusato la Francia per ottenere di più, intrattenendo relazioni burrascose con i vari presidenti.
Nel 2008 Nicolas Sarkozy giunse fino a non aiutarlo durante una delle endemiche discese ribelli e si risolse solo all’ultimo momento, quando Deby era circondato nel suo palazzo. Nemmeno quello spavento fece cambiare atteggiamento al leader ciadiano, famoso per non temere di andare personalmente in prima linea.
All’installazione del primo mandato di Ibrahim Boubacar Keita in Mali, Deby si prese la soddisfazione di ricevere l’ovazione dei maliani, mentre accanto a lui un incerto Hollande ricevette soltanto un normale applauso. Ora la sua scomparsa ha costretto l’esercito francese a trovargli un giovane sostituto nel figlio cadetto Mahmat, già in lite con una parte della sua stessa famiglia. Per ora Macron lascia fare ma non ci sarebbe da sorprendersi se in un momento successivo cambiasse linea, togliendo ai militari francesi l’ultima loro roccaforte in Africa.
C’è da tener conto che il secondo golpe militare in Mali è legato alla politica dei due pesi e delle due misure adottate da Parigi: perché – si chiedono i colonnelli di Bamako – a noi non viene concesso ciò che è accettato a N’Djamena? Ancora non si sono resi conto che la politica francese sta cambiando e che ciò che accade in Ciad è il canto del cigno della Françafrique militare.
L’accordo francese con Kigali sull’invio di truppe in nord Mozambico, cambia la politica sulla stabilità continentale, affidandola tutta agli africani. La Francia smette le operazioni all’esterno per spostarsi (come avevano già fatto gli americani con Obama in Medio Oriente) sulla tattica delle coalizioni a cooperazione multilaterale e scopo limitato.
D’altronde, Parigi doveva tener conto che i 1.000 militari tedeschi e spagnoli, inviati in Mali, erano stati posti sotto comando Ue nel quadro di un’operazione Eutm, cioè di formazione e training delle forze di sicurezza locali. La medesima cosa vogliono fare i portoghesi in Mozambico.
A Parigi si pensa che si tratti di una scelta inefficace. Anche se non vi si oppongono, ritengono che sia meglio affidarsi alle capacità combattenti africane o alle operazioni puntuali di forze speciali. In altre parole: meglio gli estoni o gli italiani di Takouba, che i tedeschi nell’Eutm.
L’Italia deve ora scegliere come posizionarsi in tale quadro sensibilmente mutato. L’aver accettato di partecipare a Takouba è un cambio di strategia a cui manca ancora la profondità di analisi politica. Abbiamo disseminato l’area di nuove ambasciate, aumentato o ripreso la cooperazione con i paesi del G5 Sahel, schierato i nostri soldati, iniziato a utilizzare gli strumenti innovativi europei di finanziamento allo sviluppo.
Bene, ma ora viene il momento di chiedersi: tutto questo per fare cosa? Ci vuole un di più di riflessione strategica assieme ai partner europei, in primis alla Francia. Allo stesso modo ci serve di capire se è meglio per l’Italia occuparsi ancora di Iraq, lontano dai nostri interessi nazionali, oppure di Mozambico, dove la presenza italiana è storica e il nome del nostro paese è sinonimo di pace.