A 14 mesi dal suo inizio, la guerra civile che contrappone il governo centrale di Addis Abeba e le forze regionali del Tigray pare entrata in una nuova fase, quella del conflitto di logoramento.
Secondo diversi analisti politici dell’area, l’operazione di ordine pubblico che, nelle intenzioni del primo ministro etiopico Abiy Ahmed, avrebbe dovuto concludersi in pochi giorni, rischia di diventare, o forse è già diventata, un elemento di instabilità di lunga durata nella regione, con un impatto sulla complessiva tenuta del paese stesso, il secondo in Africa per numero di abitanti e tra i primi nel continente per peso economico.
Le forze armate dei due schieramenti si sono confrontate aspramente sul campo di battaglia alternandosi nelle offensive, nelle occupazioni dei territori degli avversari e nelle ritirate più o meno strategiche.
Da qualche giorno le posizioni sul terreno sembrano essere ritornate al punto di partenza o quasi: le forze del Tigray sono rientrate nei loro confini regionali dopo essersi ritirate da vaste porzioni delle regioni Amhara ed Afar che avevano occupato per diversi mesi. O vi sono state respinte dall’offensiva dell’esercito nazionale e dalle milizie alleate.
Dipende dalle diverse narrazioni degli avvenimenti, fortemente caratterizzate da toni propagandistici e dalla mancanza sul campo di fonti indipendenti che possano confermare una delle opposte versioni, o almeno delineare una credibile evoluzione degli eventi.
Ma alcuni aspetti della situazione si vanno ormai definendo.
Almeno per ora, la vittoria sul campo di battaglia non sembra a portata di mano di nessuno dei due contendenti. Diversi esperti prevedono una situazione non dissimile da quella della guerra contro il regime del Derg, durata una ventina d’anni nel secolo scorso, in cui l’esercito governativo controllava le aree urbane e le zone più accessibili della regione, mentre le forze del Tigray erano asserragliate sulle montagne, da dove causavano una situazione di instabilità tale da minare il potere del governo centrale stesso.
Un segno che questa potrebbe essere l’evoluzione è il fatto che il conflitto nel Tigray ha aperto altri fronti interni e rafforzato l’opposizione armata che era già attiva in diverse regioni del paese. La quale, inoltre, ha cominciato a stringere alleanze tattico-strategiche e a delineare visioni condivise del futuro del paese e della sua stessa governance, visioni divergenti da quelle dell’attuale governo.
Il governo di Addis Abeba ha reagito per ora nel modo peggiore: scatenando una campagna d’odio, se non di vera e propria pulizia etnica, nei confronti dei cittadini di etnia tigrina. I documenti e le testimonianze in proposito sono ormai numerosi e inequivocabili: dai rastrellamenti nelle strade, nelle case, negli uffici e persino nelle istituzioni religiose, al blocco degli aiuti internazionali che sta causando una vera e propria catastrofe umanitaria nella regione.
Ma tutte le forze combattenti si sono macchiate di abusi e violenze nei confronti della popolazione civile. Lo affermano numerosi rapporti di organizzazioni internazionali autorevoli, come Amnesty International e Human Rights Watch.
A metà dicembre la deplorevole situazione è stata confermata dal Consiglio per i diritti umani dell’Onu che ha approvato una risoluzione – presentata dall’Unione europea e supportata dai paesi occidentali – che impone un’inchiesta internazionale per una paventata situazione di violenza generalizzata. Qualcuno ha usato anche il termine di genocidio.
Su 47 paesi membri del consiglio, 21 hanno votato a favore, 15 (tra cui Cina, Russia e molti paesi africani) si sono dichiarati contrari e 11 si sono astenuti. Un risultato non inaspettato che segnala la divisione della comunità internazionale e dunque la mancanza di incisività negli interventi esterni che potrebbero portare ad una soluzione negoziata della crisi.
Intanto, ha dato adito al governo di Addis Abeba di reagire in linea con l’atteggiamento tenuto durante tutto il periodo del conflitto: ha accusato il consiglio di farsi “strumento di pressioni politiche” e ha negato ogni collaborazione.
La ferma volontà di considerare il conflitto come un problema interno, da risolvere senza interferenze, è un altro dato di fatto. Fin dall’inizio il primo ministro Abiy Ahmed ha chiuso la porta in faccia alle offerte di mediazione anche dei mediatori “istituzionali”, quali l’organizzazione regionale dell’Igad e il consiglio di sicurezza dell’Unione africana. E si è dimostrato sordo agli appelli avanzati da diversi altri attori internazionali, dall’Unione europea agli Stati Uniti allo stesso segretario generale dell’Onu.
Ma fin dall’inizio la sua gestione è stata tutt’altro che interna. L’aspetto più inquietante è stato l’intervento dell’esercito eritreo in territorio etiopico a fianco dell’esercito nazionale. Una circostanza a lungo negata dai due governi contro l’evidenza dei fatti.
Segno, probabilmente, di accordi non dichiarabili, tanto che comincia a serpeggiare il sospetto che la pace tra i due paesi – che ha fatto guadagnare ad Abiy Ahmed il Premio Nobel – non sia stata in effetti che l’inizio di un’alleanza strategica e di lunga durata, basata su una comune visione dell’assetto di governo interno e delle relazioni regionali e internazionali.
In definitiva non sarebbe stato che il primo passo della guerra attuale contro il comune nemico tigrino, portatore di una visione divergente. Per questo alcuni osservatori pensano che Asmara continuerà ad influenzare, anche in modo diretto, l’evoluzione interna etiopica.
Un segno sarebbe il suo continuo coinvolgimento negli affari e nelle politiche di Addis Abeba. Ha sì ritirato le sue truppe dal paese – nei giorni scorsi però sono circolate voci di nuovi ammassamenti alla frontiera – ma, secondo numerose testimonianze, sarebbero rimaste le forze di sicurezza impegnate nei rastrellamenti dei civili tigrini e dei profughi e rifugiati eritrei, i primi concentrati in campi in località sconosciute, i secondi riportati a casa con la forza, nonostante la protezione internazionale di cui molti di loro godono.
Attorno al conflitto etiopico si sono inoltre delineate alleanze pericolose per la stabilità di una vasta area del Corno e dell’Africa orientale, tanto che si comincia a considerarlo come una proxi war tra gli stessi attori che hanno incendiato il Medio Oriente negli scorsi vent’anni.
Se si considera che almeno il 40% della popolazione etiopica è musulmana, non è difficile prevedere che l’instabilità, la circolazione di armi e le difficoltà economiche in cui il paese ormai si dibatte, possano innescare un profondo malcontento che potrebbe sfociare in fenomeni di radicalizzazione, come è successo in diversi paesi della regione. Con le conseguenze che si possono immaginare per la diffusione e il rafforzamento di gruppi e dinamiche terroristiche che hanno già profonde radici nell’area.
Forse, per controllarli sul nascere, anche la Somalia, da anni devastata dal gruppo qaidista al-Shabaab, è stata direttamente coinvolta nel conflitto. Ѐ ormai confermato, infatti, che Mogadiscio, attraverso un accordo facilitato dall’Eritrea, ha inviato uomini sul campo di battaglia. Tra il primo ministro etiopico, il presidente eritreo e quello somalo si è stabilita una solida cordata.
Alcuni osservatori mettono in relazione questa recente amicizia con l’acutizzarsi dei problemi somali. Il presidente “Farmajo” se ne sentirebbe spalleggiato nel suo braccio di ferro con l’opposizione sul processo elettorale e nel tentativo di estendere il proprio mandato. Una situazione critica che si protrae da mesi, che si è riacutizzata nei giorni scorsi e che fa temere gravi conseguenze per il paese.
Questa cordata – Etiopia, Eritrea, Somalia – sarebbe sostenuta in modo importante da Turchia, Iran ed Emirati del golfo persico, che negli ultimi mesi, avrebbero venduto ad Addis Abeba droni da combattimento di ultima generazione e altri sistemi d’arma, e sostenuto finanziariamente lo sforzo bellico.
Attivisti e organizzazioni della società civile sostengono, ad esempio, che Teheran avrebbe inviato numerosi cargo carichi di armi nel paese. Proprio l’uso massiccio dei droni avrebbe fermato l’avanzata delle forze dell’opposizione verso Addis Abeba e avrebbe convinto, o costretto, i tigrini a ritirarsi nei propri confini regionali.
Dall’altra parte, l’oggettiva debolezza attuale del governo etiopico e le tensioni di frontiera con il Sudan per il triangolo di terra conteso di al-Fashaga hanno rafforzato l’alleanza tra Khartoum e il Cairo, che hanno il comune interesse di negoziare da un punto di forza la gestione delle acque del Nilo, messa in discussione dal riempimento unilaterale dell’enorme bacino formato dalla Gerd, la grande diga etiopica sul Nilo Blu.
Da tempo il governo di Addis Abeba ha fatto circolare voci, e anche lanciato accuse, di un loro sostegno ai tigrini. I diretti interessati le hanno sempre smentite categoricamente e, per ora, non ci sono prove evidenti in proposito. Ma è plausibile pensare che, se un aiuto concreto non è ancora stato dato, potrebbe essere concesso in un prossimo futuro. D’altra parte, in tutti i conflitti, non solo in Africa, è stata applicata estesamente la massima: “I nemici dei miei nemici sono miei amici”.
Insomma, l’operazione di ordine pubblico lanciata nel novembre dello scorso anno dal governo di Addis Abeba ha scoperchiato un vaso di Pandora che potrebbe avere gravi e drammatiche conseguenze non solo per l’Etiopia, ma per tutta l’Africa orientale e potrebbe influenzarne lo sviluppo per molti anni a venire.