L’Italia supporta l’esercito e la polizia della Somalia accusati dall’Onu di aver commesso gravissime violazioni dei diritti umani.
Nei giorni scorsi il ministro della difesa, Lorenzo Guerini ha incontrato a Mogadiscio il suo omologo somalo, per sottolineare l’importanza dei rapporti militari fra i due paesi: «il legame tra i nostri paesi ha radici storiche, la Somalia è un partner prezioso ed irrinunciabile e siamo consapevoli che la stabilità dell’intera regione poggia sulla prosperità della repubblica federale somala».
Il ministro ha aggiunto che «l’Italia – come chiesto dalle autorità somale – continuerà a operare al fianco della difesa somala nell’addestramento e nello sviluppo delle sue forze di sicurezza». Nel comunicato ufficiale non c’è traccia, purtroppo, della questione diritti umani.
Nell’ex colonia sono presenti oltre settecento militari italiani, nell’ambito di alcune missioni. Tre di queste sono missioni dell’Unione Europea: Eutm Somalia, con lo scopo di formare i soldati di Mogadiscio, comandata da un generale italiano con circa 150 soldati italiani e con un costo annuo di circa 14 milioni di euro; EuAtalanta che combatte la pirateria nelle acque antistanti il paese africano con oltre quattrocento marinai, due navi e due aerei, e con un costo nel 2020 di 27 milioni di euro; Eucap Somalia, per il rafforzamento della sicurezza marittima, che schiera 15 connazionali con un costo di mezzo milione di euro.
Ci sono poi le altre missioni: la missione bilaterale di addestramento delle forze di polizia somale e gibutiane (Miadit), operata da una cinquantina di carabinieri con un costo di 2,5 milioni di euro, che ha formato quasi duemila poliziotti. I migliori tra questi vengono inviati al Center of excellence for stability police units (Coespu) di Vicenza, dove vengono formati per diventare a loro volta addestratori.
C’è poi la base di Gibuti, l’unica fuori dal territorio nazionale, realizzata nel 2012 con un costo di 24 milioni di euro. La base, che svolge da centro logistico per le predette missioni, si affaccia sullo strategico stretto di Bab el Mandeb, tra il Mar Rosso e l’Oceano Indiano.
All’inaugurazione, nel 2013, l’allora capo di stato maggiore della difesa, ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, la definì «un avamposto permanente in un’area di enorme importanza strategica, sia per quanto riguarda l’antipirateria, sia per il contrasto al terrorismo», tra Somalia e Yemen, «sia per la sorveglianza dei traffici mercantili». «Non è un caso, del resto – aveva dichiarato ancora Binelli – se molti paesi, dal Giappone alla Francia, agli Stati Uniti, hanno istallato qui delle loro basi militari. Ora ci siamo anche noi. E ci saremo per molti anni».
Con un costo complessivo nel 2020 per l’Italia, di oltre 50 milioni di euro. Per il 2021 il provvedimento che autorizza le missioni non è stato ancora approvato dal Consiglio dei ministri, ma si può prevedere che la cifra non sarà inferiore.
Il nostro paese ha speso, nel tempo, per sostenere le forze di sicurezza somale, alcune centinaia di milioni di euro, mentre alla cooperazione sono andate cifre ben più magre. La Farnesina ha anche finanziato la polizia somala mediante la ristrutturazione dell’Accademia e la fornitura di veicoli.
Nonostante i tanti denari spesi però, la Somalia è ancora in fondo alle classifiche mondiali degli indicatori socioeconomici e sempre alle prese con il terrorismo di al-Shabaab. Le predette forze di sicurezza, inoltre, seminano sofferenze fra i civili inermi.
Secondo i rapporti del Segretario generale dell’Onu, esercito e polizia da molti anni arruolano e utilizzano minorenni come soldati (nel 2019 rispettivamente 79 e 100), nonostante un impegno sottoscritto dal governo con le Nazioni Unite nel 2012 per porre fine a tale crimine, punito dal diritto internazionale. Tali corpi armati si sono macchiati anche dell’uccisione di bambini e della distruzione di scuole e ospedali, negando di fatto il diritto alla salute ed all’istruzione a parte della popolazione.
Lo stesso Guterres, nel rapporto Le sort des enfants en temps de conflit armé, del giugno 2020, affermava che: “il numero crescente di violazioni attribuite alle forze di sicurezza governative è ugualmente preoccupante, specialmente il forte aumento del reclutamento e dell’utilizzo, delle uccisioni e degli attentati all’integrità fisica dei bambini, così come le violenze sessuali perpetrate contro i bambini e attribuite alla polizia somala e alle forze regionali, e la detenzione di bambini per la loro associazione reale o presunta con i gruppi armati”.
La risposta italiana alle drammatiche ed autorevoli parole del numero uno delle Nazioni Unite è stato un assordante silenzio, anche da parte della politica e dei principali mass media nostrani.
Durante gli scarni dibattiti parlamentari sui provvedimenti di autorizzazione alle missioni all’estero nessuno o quasi, infatti, ha sollevato il problema del mancato rispetto dei diritti umani. Non solo, con un paese che è ricco solo di armi, abbiamo stipulato anche un Accordo di cooperazione militare (ratificato dal parlamento con la legge 19.4.2016, n.64) per favorire l’export dell’industria della difesa “made in Italy”.
L’Accordo prevede anche, “l’approvvigionamento di apparecchiature militari rientranti nell’ambito di programmi comuni e produzione, ordinate da una delle parti, conformemente alle rispettive leggi nazionali in materia di importazione ed esportazione di materiali militari, e il supporto alle industrie di difesa e agli enti governativi al fine di avviare la cooperazione nel campo della produzione dei materiali militari”.
Il Movimento 5 Stelle, allora all’opposizione, votò contro la ratifica, in particolare fino a quando “non verranno fornite le necessarie e irrinunciabili garanzie del rispetto dei diritti umani, con particolare riferimento soprattutto al fenomeno dei bambini soldato”.
Da quando il M5S è al governo, invece, non si è più opposto a tale accordo e alle missioni militari in quel paese. A differenza delle esportazioni di armi, regolamentate dalla legge 185 del 1990, non è previsto alcun rapporto al parlamento sulle attività svolte in base al predetto Accordo di cooperazione e, quindi, non è possibile sapere ufficialmente se e quali armamenti sono stati forniti alla Somalia.
Tali armi e munizioni rischierebbero, oltretutto, di essere utilizzate per distruggere quanto realizzato con i fondi italiani della cooperazione allo sviluppo, di cui la Somalia è uno dei principali beneficiari.
Il nostro paese ha un debito morale nei confronti del popolo somalo per la notte coloniale. L’Italia, presidente di turno del G-20, ha l’opportunità di essere parte della soluzione e non del problema. La pace resta il mezzo più potente per eliminare tante sofferenze. La pandemia offre la grande opportunità di cambiare i paradigmi, mettendo al primo posto la tutela dei diritti umani, lo sviluppo economico e sociale, e tagliando drasticamente le spese militari.