Papa Francesco: «per l’inconscio collettivo l’Africa è da sfruttare»
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In esclusiva per l'Italia l'intervista al Santo Padre sull'Africa
Intervista a Papa Francesco: «per l’inconscio collettivo l’Africa è da sfruttare»
Nigrizia propone in integrale l’intervista realizzata dalla rivista comboniana spagnola Mundo Negro a Bergoglio in vista del suo imminente viaggio nella Repubblica democratica del Congo e in Sud Sudan
19 Gennaio 2023
Articolo di Mundo Negro
Tempo di lettura 7 minuti
Papa Francesco in uno dei suoi viaggi in Africa

Papa Francesco si prepara al suo viaggio nella Repubblica democratica del Congo e nel Sud Sudan, tra la fine di gennaio e i primi di febbraio. Una visita a lungo posticipata per motivi di sicurezza e infine annunciata per il luglio 2022, ma che poi pontefice era stato costretto a rinviare per problemi al ginocchio.

Papa Francesco visiterà la Rd Congo dal 31 gennaio al 3 febbraio e poi trascorrerà due giorni in Sud Sudan prima di tornare in Vaticano. Ad accompagnarlo l’arcivescovo di Canterbury e il moderatore dell’Assemblea generale della Chiesa di Scozia.

In vista di questo importante viaggio in Africa la rivista comboniana di Spagna Mundo Negro lo ha incontrato e intervistato lo scorso dicembre.

Santo Padre, lei è diventato gesuita, tra l’altro, per recarsi come missionario in Giappone…

Sì, è vero.

Cosa rimane di quel padre Bergoglio?

Credo di essere sempre stato interessato alle periferie. Guardo le periferie dall’interno, non solo perché mi interessano intellettualmente. Ed è questo che rimane, andare oltre i confini.

Lei ha affermato che «l’Africa non smette mai di sorprendere». Quanto di questa sorpresa può essere attribuita ai missionari che ha incontrato?

Ciò che mi sorprende di più dei missionari è la loro capacità di mettersi sulla terra, rispettare le culture e aiutarle a svilupparsi. Non sradicano il popolo, al contrario. Quando vedo i missionari, e c’è sempre qualcuno che può fallire, constato che la missione cattolica non fa proselitismo, ma annuncia il Vangelo secondo la cultura di ogni luogo.

Questo è il cattolicesimo, il rispetto delle culture. Non c’è una cultura cattolica in quanto tale; sì, esiste un pensiero cattolico, ma ogni cultura è radicata in ciò che è cattolico, e questo è già nell’azione stessa dello Spirito Santo la mattina di Pentecoste.

Questo è molto chiaro. Il cattolicesimo non è uniformità, è armonia, l’armonia delle differenze. E questa armonia è creata dallo Spirito Santo. Un missionario va, rispetta ciò che si trova in ogni luogo e aiuta a creare armonia, ma non fa proselitismo ideologico o religioso, tanto meno coloniale.

Alcune deviazioni che si sono verificate in altri continenti, per esempio il grave problema delle scuole in Canada, dove sono stato e dove ne ho parlato, erano dovute al fatto che l’indipendenza non era molto chiara in quel momento, ma il missionario deve essere lì per rispettare la cultura del suo popolo, per vivere con quella cultura e per svolgere il suo lavoro.

Il concilio Vaticano II, ormai 60 anni fa, è stato uno straordinario impulso missionario. La missione è cambiata molto da allora?

Grazie a Dio, sì. Gli storici dicono che ci vogliono 100 anni perché un concilio si attui in modo completo, quindi è solo a metà strada. Tante cose sono cambiate nella Chiesa, tante cose in meglio…

Ci sono due segni interessanti: la prima imprudente effervescenza del concilio è già scomparsa, penso all’effervescenza liturgica, che è quasi inesistente. E stanno emergendo resistenze anti-conciliari che non si erano mai viste prima, tipiche di ogni processo di maturazione.

Ma tante cose sono cambiate… Sul versante missionario, il rispetto per le culture, l’inculturazione del Vangelo, è uno dei valori sbocciati come conseguenza indiretta del concilio. La fede si incultura e il Vangelo assume la cultura del suo popolo, c’è un’evangelizzazione della cultura.

La missione è necessariamente quella del dialogo?

Certo che lo è. Oggi c’è molta più consapevolezza del dialogo, e chi non sa dialogare non matura, non cresce e non sarà in grado di lasciare nulla alla società. Il dialogo è fondamentale.

Siamo ancora molto preoccupati per il numero di cattolici?

Le statistiche sono utili, ma non dobbiamo riporre in esse la nostra speranza. Mi chiedo: in chi ripongo la mia speranza? E chiedo a tutti: in chi riponete la vostra speranza, nella vostra organizzazione, nella capacità sociologica di chiamare a raccolta le persone o nella forza del Vangelo?

Dal 31 gennaio al 5 febbraio sarà nella Repubblica democratica del Congo e in Sud Sudan…

A luglio (il viaggio) è stato sospeso a causa del problema al ginocchio… In Sud Sudan vado insieme, allo stesso livello, con l’arcivescovo di Canterbury e il moderatore della Chiesa di Scozia, e stiamo lavorando molto bene insieme.

E la Repubblica democratica del Congo… è come un baluardo, un baluardo di ispirazione. Basta guardare qui a Roma la comunità congolese, che è guidata da una suora, suor Rita, una donna che insegna all’università, ma che comanda come se fosse un vescovo … Ho celebrato qui la messa in rito congolese, è una comunità che mi è molto vicina.

Non vedo l’ora di fare questo viaggio il prima possibile. Il Sud Sudan è una comunità sofferente. (Anche) il Congo sta soffrendo in questo momento di guerriglia, ecco perché non vado a Goma, non si può andare, a causa degli avanzamenti della guerriglia.

Non è che non vado perché ho paura, non mi succederà nulla, ma con un’atmosfera del genere e vedendo quello che stanno facendo, buttano una bomba nello stadio e uccidono un sacco di persone. Dobbiamo prenderci cura delle persone.

Il suo accenno alle periferie umane ed esistenziali ci ha portato mentalmente al continente africano. Queste due periferie sono indissolubili?

L’Africa è originale… (ma) c’è qualcosa che dobbiamo denunciare: c’è un inconscio collettivo… che dice l’Africa è da sfruttare. Ce lo dice la storia, con l’indipendenza a metà: gli danno l’indipendenza economica dal suolo in su, ma si tengono il sottosuolo per sfruttarlo, vediamo lo sfruttamento di altri Paesi che si appropriano delle loro risorse.

Quali sono le ricchezze del continente che non vediamo?

Vediamo solo la ricchezza materiale, ed è per questo che storicamente è stata solo ricercata e sfruttata. Oggi vediamo che molte potenze mondiali stanno andando a saccheggiare, è vero, e non vedono l’intelligenza, la grandezza, l’arte del popolo.

Pur insistendo sulla guerra in Ucraina, lei ribadisce che non dobbiamo dimenticare altri conflitti che rimangono nascosti, alcuni dei quali in Africa…

Questo è ovvio. Ho detto che ora ci rendiamo conto che questa è una guerra mondiale perché è proprio accanto a noi… Uno dei problemi più gravi è la produzione di armi. Una volta qualcuno mi ha detto che se smettessimo di produrre armi per un anno, la fame nel mondo finirebbe. Un’industria per uccidere…

Quando si parla di sfruttamento del continente africano, si parla di risorse naturali e di persone. Cosa ci perdiamo quando erigiamo recinzioni e ostacoli per fermare o impedire il loro arrivo?

E quando si mettono dei fili spinati per impedirgli di scappare… È un crimine. È un crimine. E quei Paesi che hanno un indice demografico ai minimi termini, che hanno bisogno di persone, che hanno città vuote e non sanno come gestire l’inserimento dei migranti. I migranti devono essere accolti, accompagnati, promossi e integrati. Se non sono integrati, è un male…

Ma c’è una grande ingiustizia europea, non è vero? La Grecia, Cipro, l’Italia, la Spagna e anche Malta sono i Paesi che più si trovano nell’area di accoglienza delle migrazioni, e quello che è successo in Italia, dove nonostante la politica migratoria dell’attuale governo sia, diciamo così, in senso buono, restrittiva, ha sempre aperto le porte per salvare le persone che l’Europa non accoglie.

Questi Paesi devono fare i conti con tutto e si trovano di fronte al dilemma se rispedirli indietro perché li uccidano o muoiano, oppure fare questo… È un problema serio. L’Unione Europea non accompagna.

Papa Francesco con (alla destra) il direttore della rivista comboniana di Spagna Mundo Negro, padre Jaume Calvera, il caporedattore Javier Fariñas Martín, e (a sinistra) il cardinale Miguel Ángel Ayuso Guixot, prefetto del Dicastero per il dialogo interreligioso

 

 

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