Nota di redazione: la recensione di Io Capitano a firma della nostra collaboratrice Simone Cella ha suscitato un dibattito assai animato sui canali social di Nigrizia. Rispondere direttamente negli angusti spazi dei commenti sarebbe stato poco pratico e limitante. Meglio allora dar spazio ad una sua risposta più strutturata. La trovate qui di seguito.
Ho letto con interesse i commenti alla mia recensione di Io Capitano di Matteo Garrone e proprio perché il film solleva questioni complesse e di una drammatica attualità penso sia importante fare qualche precisazione.
Per chi ha sollevato dubbi sulla competenza cinematografica di Nigrizia segnalo che sono laureata in Storia del Cinema con una tesi sul regista senegalese Djibril Diop Mambety e da anni scrivo di cinema su diversi periodici e riviste. Per ragioni di studio e lavoro frequento inoltre il Senegal da più di 25 anni e sono appena tornata da Dakar, dopo un viaggio di due mesi durante il quale insieme al collettivo Keur Gou Mak ho partecipato alle riprese per un documentario indipendente ed autofinanziato che racconta del viaggio di 5 ragazze senegalesi che tornano nel loro paese dopo anni di assenza. Un progetto che mi ha dato l’opportunità di confrontarmi con molti adolescenti senegalesi proprio sul tema della migrazione.
Riguardo al film Io Capitano rispondo a chi ha bollato la critica come frettolosa e mi ha consigliato di andare a rivedere il film, che – oltre ad aver visto il film due volte – ho partecipato alla conferenza stampa al Festival di Venezia ho letto quasi tutte le recensioni e da un anno circa sto cercando di ottenere un’intervista con Garrone. Ho avuto inoltre la possibilità di confrontarmi a lungo con alcuni attori senegalesi che hanno partecipato alle intere riprese del film (Senegal, Marocco,Sicilia) che non hanno avuto la possibilità di raccontare la loro esperienza che non sempre mi pare coincida con le dichiarazioni del regista.
Leggendo i vostri commenti mi sembra che l’avere osato criticare il film potesse quasi nuocere al successo dello stesso e alla sensibilizzazione presso un pubblico vasto sul tema della migrazione. La mia riflessione parte proprio da qui. Io Capitano è un film che grazie al nome di Garrone, ai premi vinti a Venezia e alla solida struttura distributiva (attualmente è distribuito in 256 sale) avrà una grandissima visibilità. Ed è un film che affronta un tema drammatico e attuale attraverso un realismo magico (definizione utilizzata dallo stesso regista) che mescola due cifre stilistiche già presenti nei suoi precedenti film: il realismo (Gomorra) e la favola (Pinocchio). Ed è proprio questo doppio registro che porta il film su un territorio di ambiguità. Ambiguità che emerge anche nei commenti alla mia recensione. C’è chi lo difende perché necessario racconto realista su un tema attuale e poco visto al cinema; e chi al contrario difende la libertà artistica del regista sottolineando che si tratta di un film di finzione e non di un documentario.
Vedendo il film si è da una parte portati a pensare che sia una storia vera o perlomeno verosimile (il regista ha dichiarato che la storia si basa su testimonianze di chi il viaggio lo ha affrontato veramente) dall’altra si è spinti sul territorio della favola. Il viaggio di Seydou e Moussan termina con un lieto fine che omette di raccontare cosa succede in Italia quando i migranti sbarcano sulle nostre coste. Gli uomini e le donne portati in salvo da Seydou esultano quando si rendono conto di aver raggiunto l’Italia dopo un viaggio che risulta tutto sommato tranquillo tranne una parentesi di disperazione dovuta alla sete e alla stanchezza. La barca scivola placida su acque tranquille e una donna incinta partorisce miracolosamente nonostante una precedente perdita di sangue. Certo il film ci mostra le immagini di cadaveri nel deserto, (artisticamente coperti dalla sabbia) e le terribili torture subite dai migranti nelle carceri libiche, ma in fondo Seydou, come i protagonisti delle favole sopravvive si trasformandosi addirittura in eroe.
Garrone dichiara di aver voluto mostrare una migrazione diversa da quella provocata da fame, guerra, catastrofi climatiche. Una migrazione non forzata ma semplicemente desiderata da due ragazzi che sognano (grazie ai social?!) di raggiungere l’Europa e diventare musicisti di successo. Cosi ci viene restituita l’immagine di un Senegal povero ma dignitoso, dove si vive in baracche di legno colorate e pulite e dove non si percepisce nessuna delle gravi problematiche che affliggono il paese (disoccupazione, corruzione, landgrabbing, speculazione edilizia, neocolonialismo). Ricordo qui che il Senegal negli ultimi anni sta subendo una stretta autoritaria che ha recentemente portato a violente proteste e morti. In Io Capitano non si vede niente di tutto ciò, anzi sembra proprio un paese dei Balocchi, dove si balla, si canta, si gioca, si ride, ci si traveste e due minorenni riescono in soli sei mesi a raccimolare i soldi per il viaggio, senza nessun aiuto da parte delle famiglie.
Ma non è solo l’ambiguità del film che mi rende scettica. Garrone ha dichiarato: «Per realizzare il film siamo partiti dalle testimonianze vere di chi ha vissuto questo inferno ed abbiamo deciso di usare la macchina da presa per raccontare dal loro punto di vista, come un controcampo alle immagini che siamo abituati a vedere dal nostro punto di vista occidentale. Un tentativo di dare finalmente voce a chi di solito non ce l’ha».
Eppure la sceneggiatura è firmata da 4 italiani, con la collaborazione di Fofana Amara, Mamadou Kouassi Pli Adama, Arnaud Zohin, Brahne Tareka, Siaka Doumbia, Chiara Leonardi, Nicola Di Robilant. Le due principali testimonianze prese in considerazione, che tra l’altro non sono di senegalesi, sono state mescolate tra loro e manipolate dagli autori italiani. Quindi la voce di chi è?
E mi chiedo questo film servirà veramente a sensibilizzare sul dramma della migrazione o finirà nel flusso di un’informazione generica, retorica e paternalista?
Garrone afferma inoltre di aver voluto colmare un vuoto visivo sul viaggio che porta i migranti dall’Africa all’Europa. Ma quel vuoto visivo è da anni colmato da film e documentari di registi senegalesi che senza aspettare che Garrone gli desse voce hanno realizzato film selezionati dai grandi festival internazionali tra i quali Cannes e che spesso sono reperibili anche su piattaforme e web.
Le dichiarazioni di Garrone riflettono un atteggiamento paternalista e comunque fuori tempo massimo. Forse il grande pubblico non conosce l’esistenza di una cinematografia africana che fin dagli anni Sessanta racconta la migrazione. Ma un regista del calibro di Garrone che afferma aver fatto una ricerca di due anni forse dovrebbe sapere che gli africani non hanno bisogno di essere raccontati da altri. Ci sono voci autorevoli in letteratura, arte, cinema, musica.
Garrone avrebbe dovuto limitarsi a fare un film senza ergersi ad ambasciatore di nessuno.
E la rivista Nigrizia, dando spazio a voci controcorrente, fa solo il suo dovere di informazione.