Uno spiraglio verso la riforma dell’anacronistica legge sulla cittadinanza. Un passo avanti lungo trent’anni. Questa la distanza che separa il volto odierno del paese dalla legge 91 del 1992 che, come scritto dal presidente della commissione Affari costituzionali alla Camera, Giuseppe Brescia (M5S), nella premessa del testo base presentato e approvato ieri, dovrebbe portare il mondo della politica a «prendere atto delle profonde trasformazioni avvenute nella società italiana e aggiornare le norme in materia di cittadinanza».
Sganciando tale diritto dai temi della sicurezza e immigrazione, che da anni affiancano l’opportunismo politico di alcune realtà parlamentari, per procedere finalmente a «un dibattito razionale su una nuova legge della cittadinanza, mettendo al centro invece il ruolo della scuola come potente fattore di integrazione».
È infatti sulla scuola che ruota la snella proposta scritta da Brescia, nata come lavoro di sintesi dei tre testi di riforma depositati in commissione da Laura Boldrini, Matteo Orfini e Renata Polverini. Sparisce il tanto contestato (ma mai preso davvero in considerazione) riferimento allo ius soli, il diritto alla cittadinanza se si nasce in territorio italiano, per altro del tutto inesistente in Europa.
Come si legge nella premessa, «la presente proposta punta a introdurre in maniera puntuale una nuova fattispecie orientata al principio dello ius scholae, con una scelta di fiducia non solo negli stranieri che vogliono integrare i loro figli, ma nel lavoro della comunità didattica, nella dedizione dei dirigenti scolastici e degli insegnanti che in classe costruiscono la nostra repubblica e insegnano i valori della nostra Costituzione».
Diritto legato alla frequenza scolastica
Ius scholae dunque, perché si prevede l’acquisizione della cittadinanza italiana per chi nasce in Italia o arriva nel paese entro il 12esimo anno di vita, vi risieda legalmente, in maniera continuativa, e «abbia frequentato regolarmente, nel territorio nazionale, per almeno 5 anni, uno o più cicli scolastici presso istituti appartenenti al sistema nazionale di istruzione o percorsi di istruzione e formazione professionale triennale o quadriennale idonei al conseguimento di una qualifica professionale». Perché l’iter inizi occorre una dichiarazione di volontà, entro il 18esimo anno di età del minore, da parte di entrambi i genitori che risiedono legalmente in Italia o da chi ne ha la responsabilità genitoriale.
A votare a favore di un testo che ricade sulla vita di oltre un milione di minori nate e nati in Italia, ieri, sono stati Pd, M5S, Leu e Italia Viva, cui, per la prima volta, si è aggiunta Forza Italia. Contrari Lega e Fratelli d’Italia. Il passo successivo ora è quello della prossima settimana, quando l’ufficio di presidenza della commissione fisserà i tempi per la presentazione degli emendamenti in aula.
Dopo l’approvazione alla Camera il testo passerebbe al Senato. Se si arrivasse al voto definitivo della riforma, il testo proposto prevede sei mesi per provvedere a coordinare, riordinare e raccogliere in un testo unico tutte le disposizioni che riguardano la materia della cittadinanza.
E chi nel frattempo compie 18 anni?
Dal testo in esame alla Camera rimane fuori chi arriva in Italia dopo i 12 anni o chi, pur avendo tutti i requisiti previsti dalla riforma, ha già compiuto 18 anni e non può più accedere a tale diritto. A oggi infatti in Italia chi compie 18 anni ha un anno di tempo dal compimento della maggiore età per far richiesta di cittadinanza. Di fatto, però, il riconoscimento non è immediato.
Con il decreto legge 130 del 2020, il termine dei 48 mesi, introdotti dal primo decreto Salvini del 2018, si è formalmente ridotto a 24, come era previsto prima del decreto del ministro leghista, con la possibilità però di una proroga fino a un massimo di 36 mesi. Per cui, di fatto, l’attesa è di (minimo) altri tre anni. Tre anni che continuano a segnare la differenza delle possibilità di vita di chi avrebbe maturato un diritto.
Chi diventa maggiorenne dunque, pur essendo di nascita italiana e di percorso scolastico pluriquinquennale, non solo non ha la possibilità di aver riconosciuto il diritto, ma ha una disparità di tempistiche rispetto allo stato cui fa richiesta: alla rigidità dell’anno della domanda, non corrisponde eguale rigidità del diritto alla risposta. Un tempo che pone l’Italia tra i paesi con la tempistica peggiore in Europa.
Se la persona minore si trovasse in Germania, secondo l’iter stabilito, dai 6 ai 9 mesi si troverebbe in mano il documento di cittadinanza tanto agognato. Se fosse in Francia, Paesi Bassi e Romania i mesi sarebbero 12.