“Stop killing us” (Smettete di ucciderci), scandivano gli affollati cortei di donne e uomini che il 27 gennaio hanno percorso le strade di Nairobi e di numerose altre città del Kenya. Per la prima volta nel paese si è dimostrato contro i femminicidi che sono ormai considerati dalle organizzazioni che difendono i diritti delle donne, e quelli umani in generale, una piaga contro cui il governo fa ben poco.
A Nairobi il corteo ha sonoramente fischiato la rappresentante delle donne della contea, Esther Passaris, per il suo silenzio sul crimine che ha avuto recentemente una preoccupante accelerazione. Passaris non si è fatta intimidire e nel suo discorso ha chiesto un inasprimento della legge che colpisce la violenze contro le donne: «Quando c’è una chiara evidenza, i colpevoli non devono essere rilasciati su cauzione», come previsto dal sistema giudiziario kenyano, prima della sentenza definitiva.
A Garissa, Amina Siyad, rappresentante delle donne per quella contea, ha commentato l’assenza della moglie del presidente, Rachel Ruto, stigmatizzata come un segno del poco interesse della politica per una questione così importante.
Maureen Magaga, di Lend a Voice Africa – organizzazione locale che si occupa di empowerment dei giovani, delle donne e dei bambini -, ha sottolineato come per le donne stia diventando sempre più insicuro vivere in Kenya.
Dall’inizio dell’anno ne sono state uccise 16, più di una ogni due giorni, considerando che il mese di gennaio non è ancora finito. Ma, secondo gli attivisti scesi in piazza sabato, il numero potrebbe essere ben maggiore perché molti femminicidi non vengono neppure denunciati. Per questo Maureen Magaga ha chiesto che il governo «organizzi un sistema di raccolta dati globale» e che «formi una commissione con un piano chiaro per far fronte a questo genere di omicidi».
Per ora, il conteggio di questi crimini nel paese è tenuto da Femicide Count Kenya, un’organizzazione della società civile che opera dal 2019 e registra solo i casi acclarati. L’anno scorso ne ha contati 152, il numero maggiore negli ultimi cinque anni.
Altre organizzazioni, come le piattaforme investigative Africa Uncensored e Africa Data Hub ne elencano almeno 500 dal 2017 ad oggi. La grande maggioranza dei femminicidi è avvenuta ad opera di uomini che conoscevano bene le loro vittime, come del resto succede anche in Italia e altrove nel mondo. Audrey Mugeni, una delle fondatrici di Femicide Count Kenya è convinta che si tratti di un’emergenza nazionale e che nel paese non si stia facendo abbastanza per proteggere le donne.
La violenza di genere, che porta non raramente al femminicidio, sembra essere diffusissima nel paese. Secondo una ricerca organizzata nel 2022 dall’ufficio statistico nazionale, più di un terzo delle donne kenyane, ovvero 9 milioni circa, ha sperimentato una qualche forma di violenza fisica nel corso della sua vita.
L’organizzazione non profit Usikimye (parola swahili che significa “non state zitte”) che ha una linea telefonica per donne sopravvissute alla violenza (paragonabile al nostro Telefono rosa) riceve circa 150 chiamate al giorno. Un numero enorme se si tiene conto che nel paese non sono molte le persone che conoscono il servizio.
Tuttavia il Kenya non è un paese di retroguardia sul tema della violenza di genere. Ha firmato i trattati internazionali in materia, in particolare la convenzione dell’ONU sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW) e la Carta africana sui diritti dell’uomo e dei popoli. Si è anche dotato di leggi specifiche, come il Sexual Offences Act. Inoltre la polizia ha un desk specializzato per riconoscere e perseguire la violenza di genere.
Il problema è politico, secondo Shyleen Bonareri, direttrice dell’Istituto per la leadership delle giovani donne (Young Women’s Leadership Institute – YWLI). Il governo, dice, non ha mai considerato la violenza di genere come una priorità. Ad esempio, non ha mai organizzato una campagna nazionale di sensibilizzazione e prevenzione. Per di più «il sistema giudiziario rimane apatico e inefficiente nel perseguire i colpevoli mentre la corruzione continua a causare gap nell’applicazione delle leggi, che sarebbero ambiziose».
Molte kenyane, invece, puntano il dito sulla cultura dominante, caratterizzata da un profondo misoginismo che vede le donne come proprietà degli uomini e le espone al giudizio della pubblica opinione nonostante siano le vittime, invece di puntare il dito sulla colpevolezza degli uomini.
Il concetto è espresso chiaramente anche in una colonna nella pagina dedicata alle opinioni del Daily Nation del 28 gennaio. Gli autori sono Mercy Mugecha e Joy Omwansa, di una rete che lavora per la sensibilizzazzione sul diritto alla salute riproduttiva. Il loro pezzo inizia con le domande che di solito si rivolgono alle donne vittime di violenza. “Com’era vestita?” “Perche era fuori da sola di notte?” “Ha provocato chi l’ha aggredita?” e altre del genere.
Potremmo dire “tutto il mondo è paese”. Sono le stesse domande e lo stesso atteggiamento che sperimentiamo anche in Italia e che, nonostante il grande lavoro fatto nel nostro paese, non sono ancora state sradicate dalla mente di molti dei nostri concittadini, uomini soprattutto, ma purtroppo anche donne.
Ma in Kenya c’è qualcosa di più, secondo Shyleen Bonareri. Ѐ ancora un’esperienza comune per troppe donne essere “educate” dai mariti. “Disciplined” è il termine usato, come si fa con i bambini, cui talvolta non si risparmia neppure una sculacciata, data a fin di bene.
Parecchi nel paese vedono la pratica addirittura come un segno di affetto, come se le donne fossero minorenni a vita e dovessero essere grate per l’impegno volto al loro miglioramento. E «simili idee patriarcali che si accompagnano con una strutturale ineguaglianza tra uomini e donne nella società kenyana costituiscono il terreno di coltura per la violenza».
Certo, non è così in tutte le famiglie e le coppie kenyane. Anzi, la situazione dei rapporti tra i sessi è in veloce evoluzione. Questo è, con ogni probabilità, un’altra causa del problema: un cambiamento che non va di pari passo. In una società patriarcale che sta perdendo il controllo dell’uomo, della famiglia, sulla donna, la mancata accettazione dei nuovi equilibri si trasforma in violenza.