Kenya: nuovi equilibri dietro l’impeachment del vicepresidente?
Kenya Politica e Società
L’ombra di Ruto sul processo di messa in stato d’accusa di Rigaty Gachagua
Kenya: nuovi equilibri politici dietro l’impeachment del vicepresidente?
Sul numero due della State House pesano 11 capi d’accusa per tribalismo, sabotaggio del governo e corruzione. Dopo il voto positivo dell’Assemblea Nazionale, grazie anche al contributo dell’opposizione, la parola passa ora al Senato. Palesate già da tempo le tensioni tra i due massimi esponenti della nazione
10 Ottobre 2024
Articolo di Bruna Sironi (da Nairobi)
Tempo di lettura 7 minuti
Rigaty Gachagua (a sinistra) e William Ruto (Credit: PCS)

Con 281 voti a favore, 44 contrari e un astenuto l’Assemblea Nazionale ha votato il 7 ottobre scorso per l’impeachment di Rigaty Gachagua, il vicepresidente del paese. È la prima volta nella storia del Kenya.

Poche ore dopo il presidente dell’Assemblea Moses Wetangula aveva già trasmesso al Senato i documenti in base ai quali la decisione è stata adottata. Il Senato non ha perso tempo, iniziando già ieri la discussione che dovrà concludersi entro 7 giorni.

Il presidente William Ruto finora non si è espresso pubblicamente sulla messa in stato d’accusa del suo vice. È un silenzio pesante. Ma, visto il risultato del voto parlamentare, non pochi suppongono che, in accordo con il leader dell’opposizione, abbia manovrato nell’ombra per eliminare dalla scena politica in modo non attaccabile un personaggio rivelatosi decisamente scomodo.

Il Daily Nation, il giornale più diffuso del Kenya, ieri, 9 ottobre, dedicava alla messa in stato di accusa del vicepresidente ben otto pagine di informazioni e analisi. In un sommarietto in prima pagina si legge che Gachagua “ora sta pregando perché un miracolo lo mantenga al suo posto”.

Voto popolare

Anche la popolazione è stata chiamata a dare la propria opinione, come previsto dalla Costituzione quando sono in ballo decisioni così rilevanti. In tutte le contee erano stati organizzati punti di raccolta dove era possibile palesare il proprio giudizio su una scheda, approntata dall’Assemblea Nazionale in base alla mozione presentata per la messa in stato d’accusa del vicepresidente.

La scheda, allegata il 3 ottobre anche al Daily Nation, chiedeva in sintesi il parere e riportava per esteso gli undici capi d’accusa su cui sarebbe stato giudicato. Anche su quelli, chi voleva poteva esprimersi.

Le operazioni di raccolta dell’opinione popolare non si sono svolte ovunque pacificamente. Ci sono stati scontri e disordini in particolare nelle contee della regione del Monte Kenya, bacino elettorale di Gachagua, che hanno dato un contributo decisivo alla vittoria del presidente Ruto nelle scorse elezioni.

Secondo un rapporto parlamentare citato nella seduta dell’8 ottobre, 200mila persone circa, non molte per la verità, hanno fatto pervenire la propria scheda. Il 65% avrebbe dato parere favorevole all’impeachment, il 34% circa, invece, avrebbe dato parere contrario.

Accuse e difesa

Gachagua si è battuto strenuamente, prima e durante la seduta dell’Assemblea Nazionale contro le accuse a lui rivolte, che possono essere sintetizzate in tre blocchi: tribalismo, sabotaggio del governo di cui fa parte e corruzione.

Ma alcuni fatti sembrano dargli torto, o perlomeno dimostrano che il vicepresidente non si è mosso con la prudenza necessaria a chi riveste il suo ruolo.

Sulla scheda approntata dal parlamento al primo posto tra gli undici capi d’accusa è elencato quello di tribalismo. Citando numerosi articoli della Costituzione si afferma che il vicepresidente “ha messo in pericolo in modo grave l’unità nazionale e la coesistenza pacifica delle diverse comunita del Kenya” con ricorrenti discorsi incendiari in cui minacciava di “discriminare, escludere e negare illegalmente uguali opportunità nell’assegnazione di posti di lavoro pubblici e nella distribuzione delle risorse” alla popolazione e alle regioni del paese.

L’accusa fa riferimento in particolare alla proposta popolarmente conosciuta come “one man, one shilling“ (un uomo uno scellino) che chiedeva, in soldoni, una quota maggiore di risorse per le regioni che lo avevano votato, che sono quelle maggiormente abitate, e già maggiormente sviluppate, del paese.

La proposta ha suscitato un accesissimo dibattito, ed è stata generalmente tacciata di programmare un paese ineguale. Il 13 giugno scorso The Star, un giornale popolare e considerato come filogovernativo, titolava: One man, one vote, one shilling: a formula for inequity (Un uomo, un voto, uno scellino: una formula per la disuguaglianza).

Ma sostanzialmente dello stesso parere erano anche giornali specializzati. “Fallimentare la formula ‘un uomo uno scellino’ nella distribuzione delle risorse” (Fallacy of ‘one man one shilling’ formula in resource allocation) titolava il Businness Daily l’11 giugno.

Il Katiba Institute si chiedeva invece se la formula rispecchiasse la Costituzione e concludeva che la violava platealmente citando in proposto, tra gli altri, una parte dell’articolo 203, che ribadisce “la necessità di azioni positive per le aree e i gruppi svantaggiati”.

La seconda accusa elencata sulla scheda sopra citata riguarda il sabotaggio delle politiche del suo stesso governo: “… il vicepresidente ha fatto dichiarazioni pubbliche unilaterali non coerenti con le posizioni politiche adottate collettivamente dal governo, contraddicendo il presidente su questioni critiche di governance e nell’esercizio delle sue funzioni come simbolo della nazione”.

La contrapposizione tra il presidente Ruto e il suo vice è stata costante durante i due anni della legislatura, ma ha assunto un carattere particolarmente delicato durante le dimostrazioni giovanili della scorsa primavera.

Lo scorso 26 giugno, ad esempio, quasi contemporaneamente al discorso di Ruto alla nazione dopo uno scontro tra i dimostranti e la polizia che aveva provocato numerose vittime, Gachagua da Mombasa aveva diffuso la sua propria visione dei fatti.

Mentre il presidente aveva difeso l’operato delle forze dell’ordine, il vicepresidente aveva ricordato i morti nelle proteste, la stragrande maggioranza dei quali erano giovani che dimostravano pacificamente.

La differenza di accento non poteva passare inosservata. Lo stesso è avvenuto per le sparizioni di diversi attivisti ad opera delle forze di sicurezza, denunaciate ripetutamente dal vicepresidente e negate decisamente dal presidente, fino all’emergere di evidenze incontrovertibili.

La difesa dei dimostranti, probabilmente sfruttata per rimarcare una differenza e forse anche per  aumentare una scarsa simpatia popolare, gli ha guadagnato l’accusa di essere tra i finanziatori delle proteste, mediante suoi alleati.

Ultime in elenco le accuse di corruzione. Vi si afferma che Gachagua ha commesso colossali crimini economici, riguardanti precisamente conflitti di interesse, abusi d’ufficio, ammassamento di proprietà per 5,2 miliardi di scellini (oltre 40 milioni di dollari) negli ultimi due anni, inspiegabile con il suo reddito conosciuto.

Il vicepresidente si è difeso dicendo di aver ereditato molti dei suoi beni da un fratello morto e ha rilanciato dicendo che, in ogni caso, non sarebbe il più corrotto del governo. E su questo punto potrebbe non avere tutti i torti.

D’altra parte, quando è stato scelto come vicepresidente, era sotto processo per appropriazione indebita, caso accantonato poche settimane dopo la sua elezione.

Gachagua, capro espiatorio?

Non tutti, però, sono così decisi nel giudicare l’operato del vicepresidente. Il Daily Nation del 7 ottobre ha pubblicato l’opinione di una commentatrice politica, Kaltum D. Guyo, che ha titolato Gachagua is the lesser evil (Gachagua è il male minore).

Vi si dice che due accuse in particolare, la corruzione e il tribalismo, sono al centro dei problemi del paese da sempre e che non sono state certamente amplificate e diffuse dall’attuale vicepresidente. Vi si sostiene anche che l’impeachment di Gachagua, di fatto, fa scivolare in secondo piano problemi ben maggiori, come ad esempio il terrorismo, ma soprattutto i problemi economici del paese e dei kenyani tutti.

Inoltre distrae l’attenzione da altre questioni che il governo vorrebbe tenere sotto traccia, come ad esempio certi accordi economici con gruppi stranieri per la gestione di strutture essenziali del paese.

L’ultima osservazione riguarda già le elezioni del 2027: la messa fuori gioco di Gachagua potrebbe essere visto in funzione di un cambio di panorama e di alleanze, che gia ora cominciano ad emergere.

In sostanza, secondo Kaltum D. Guyo e altri, Gachagua sarebbe il caprio espiatorio di un cambiamento di interessi politici. Non si può non osservare, però, che il vicepresidente ha fatto ben poco per evitare all’attale linciaggio.

Di linciaggio parla anche Martha Karua, presidente del NARC (National Rainbow Coalition) uno dei partiti di opposizione, che avrebbe dovuto essere vicepresidente se alle elezioni avesse vinto Raila Odinga. Lo dice anche nel suo ruolo di avvocato, parte del collegio difensivo di Gachagua, composto da una ventina di legali.

Con un post su X, la Karua afferma: “Righati Gachagua non é un angelo, ma, come ogni altro cittadino, merita un processo adeguato, non un’opera di linciaggio”.

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