Con una mossa che ha già sollevato un coro di polemiche, il 2 luglio il presidente del Kenya William Ruto, in carica dallo scorso settembre, ha revocato il divieto di disboscamento imposto sei anni fa dal suo predecessore Uhuru Kenyatta.
Più che mai sotto pressione per la grave crisi economico-finanziaria del paese e per le proteste guidate dall’opposizione per la recente approvazione di una legge di bilancio destinata a far sprofondare ulteriormente la popolazione nella povertà, Ruto ha difeso la decisione sostenendo che la revoca è destinata a creare posti di lavoro e aprire settori dell’economia che dipendono dai prodotti forestali.
«Non possiamo avere alberi maturi che marciscono nelle foreste mentre gli abitanti soffrono per la mancanza di legno. Questa è follia», ha tuonato il presidente, annunciando che il governo ha anche previsto nuove tasse sulle importazioni di legname e suoi derivati per favorire l’industria locale in sofferenza.
Eppure era stato proprio lui, allora vicepresidente, ad annunciare, nel febbraio 2018, una prima moratoria di tre mesi sulla raccolta del legname in tutte le foreste pubbliche e comunitarie, per far fronte alla preoccupante carenza idrica del paese.
Replicando alle critiche Ruto ha sostenuto che saranno tagliate solo le piante più vecchie, annunciando un piano governativo per piantare 15 miliardi di alberi in 10 anni.
I critici, ambientalisti in testa, si dicono invece scioccati per una scelta che avrà un forte impatto sul territorio, già pesantemente colpito negli ultimi anni da una persistente siccità.
“Allarmata” per questa decisione, Greenpeace ha invitato il governo a fare marcia indietro.
«Non puoi dire alle persone di andare a tagliare un tipo di albero ed evitare gli altri. Dal momento in cui il divieto è stato revocato, tutti gli alberi sono in pericolo», fa notare Hamisa Zaja, segretario generale del partito dei Verdi, United Green Movement, sentito da RFI.
Perché le nuove piante crescano fino a diventare alberi, ha fatto inoltre notare, possono volerci 10, 20 o 30 anni. Senza contare i pericoli derivati dall’erosione del suolo, già grave in Kenya soprattutto nell’entroterra, a causa dell’abbattimento degli alberi.
La moratoria sul disboscamento forestale era stata imposta proprio per proteggere le foreste montane e tutelare le vitali riserve idriche del Kenya, a rischio, già nel 2018, a causa della deforestazione.
Un deterioramento, quello delle foreste montane native, serbatoi naturali d’acqua fondamentali per l’ecosistema e per la sopravvivenza della fauna selvatica e delle popolazioni indigene, definito all’epoca dalle autorità forestali kenyane “allarmante”.
Era stato allora lo stesso Kenya Forest Service a sottolineare che l’esistenza delle foreste – tra le più minacciate negli ultimi decenni la foresta Mau – garantisce attività come: il turismo, l’agricoltura e il rifornimento idrico per città e industrie. Mitigando il cambiamento climatico attraverso il sequestro del carbonio.
Prima dell’indipendenza, nel 1963, le foreste coprivano il 12% del Kenya, ma oggi rappresentano solo il 7,5% del suo territorio, a causa del disboscamento illegale per pascoli, agricoltura e produzione di carbone. Un fenomeno in drammatica crescita in tutto il continente. (MT)