Il Kenya ha partecipato attivamente alla conferenza di Glasgow sui cambiamenti climatici. Il paese ha firmato due importanti e ambiziosi trattati che hanno l’obiettivo di ridurre l’emissione di gas ad effetto serra di almeno il 30% entro il 2030.
La prima è la dichiarazione in cui almeno 114 paesi si impegnano a proteggere le foreste e a far buon uso del territorio, il Glasgow Leaders Declaration on Forest and Land Use (Dichiarazione di Glasgow sull’uso delle foreste e del territorio). Il secondo è lo Sports for Climate Action Framework, S4CA (Quadro di riferimento dello sport per un’azione per il clima), lanciato da Eliud Kicphoge, il maratoneta kenyano campione del mondo.
Per il presidente Uhuru Kenyatta la conferenza di Glasgow è stata un’occasione per sottolineare quanto è stato fatto durante la sua presidenza per proteggere le risorse del paese in modo da minimizzare l’impatto, già ora drammatico, dei cambiamenti climatici.
Si è anche impegnato a usare solo energia verde entro il 2030, dichiarando che già ora il 73% dell’energia usata nel paese e il 90% dell’elettricità proviene da fonti rinnovabili, quali installazioni geotermiche, solari, eoliche e idrauliche (ma dimenticando di ricordare gli accordi presi con la Cina nel 2015 per la costruzione di una serie di centrali nucleari entro il 2022, ndr).
Ѐ una narrazione contestata dagli ambientalisti kenyani che ritengono, al contrario, che non si sia fatto abbastanza, e puntano il dito sulle interferenze politiche e le resistenze di molte comunità ai provvedimenti che mirano a proteggere l’ambiente, e in particolare le foreste. Portano gli esempi della foresta Mau e del Monte Elgon, importantissimi bacini imbriferi (idrografici) che immagazzinano acqua piovana da distribuire a decine di milioni di persone, in Kenya e nei paesi vicini, attraverso una rete di corsi d’acqua che vi hanno origine. Le disposizioni emanate per la loro protezione sono state tardive e in gran parte inefficaci.
Le comunità, in maggioranza all’oscuro dell’importanza della foresta per la loro stessa sopravvivenza, spinte dalla siccità che desertifica i terreni coltivabili, continuano a disboscare per poter utilizzare terreni vergini per la loro stessa sopravvivenza. I politici spesso manipolano la situazione in modo da proteggere i propri interessi a scapito delle comunità e del paese stesso.
Lo sottolinea Patricia Kombo, un’ambientalista intervistata dal Daily Nation per un articolo pubblicato il 4 novembre. «Come farà il governo a implementare la dichiarazione (per la protezione delle foreste e il buon uso del territorio, ndr) quando sono i leader a monopolizzare la distruzione?»
Sta di fatto che i cambiamenti climatici da tempo stanno colpendo molto duramente il paese senza che vengano messe in atto politiche efficaci di supporto a medio e lungo termine. Anche quest’anno da mesi ormai i media pubblicano articoli sulla devastante siccità che interessa, ancora una volta, almeno 2 milioni e mezzo di persone nelle zone semiaride del nord e sulla costa.
All’inizio di settembre la situazione era già così grave che il presidente Uhuru Kenyatta dichiarava che si era nel mezzo di un disastro nazionale. Già allora 400mila persone dovevano essere assistite con distribuzioni di cibo nelle contee di Kilifi, Kwale, Tana River e Lamu, tanto che il presidente sollecitava il ministero del tesoro e quello degli interni ad organizzare al più presto i soccorsi.
Secondo la direttrice della Croce Rossa keniana, Asha Mohammed, erano già 12 le contee duramente colpite, ma prevedeva che la situazione di emergenza ne avrebbe interessato in breve tempo almeno 20, sulle 47 in cui il territorio del paese è suddiviso.
E la stagione secca era all’inizio, ma erano fallite le stagioni delle piogge precedenti e dunque la popolazione non aveva riserve alimentari per arrivare al raccolto successivo, sempre che le precipitazioni della prossima stagione delle piogge siano finalmente sufficienti per permettere la coltivazione e la rigenerazione dei pascoli. I meteorologi, purtroppo, prevedono il contrario anche per i prossimi mesi.
Gli allarmi per emergenze alimentari dovute a crisi climatiche sono ormai così frequenti in Kenya – così come in numerosi altri paesi del continente – che si rischia di farci l’abitudine. Appelli di emergenza sono stati lanciati quasi ogni anno negli ultimi vent’anni, con picchi di gravità che si susseguono, si direbbe ormai regolarmente, ogni tre anni, circa.
In sostanza, le popolazioni di diverse zone del paese soffrono di insicurezza alimentare cronica ed ogni variazione del regime delle piogge, diventate sempre più imprevedibili a causa proprio dei cambiamenti climatici, si traduce inevitabilmente in minor pascolo e raccolto, e origina una drammatica, perenne emergenza.
La situazione è particolarmente preoccupante nelle contee semiaride del nord del paese – tra le altre Baringo, Laikipia, West Pokot, Turkana, Marsabit, Isiolo – dove la siccità scatena molto spesso anche sanguinosi conflitti tra allevatori e agricoltori per pascoli e fonti d’acqua. Sono scontri per l’uso delle risorse del territorio che hanno generalmente lontane radici storiche e più attuali micce politiche.
Il caso Laikipia
Emblematico è il caso della contea di Laikipia, dove ogni crisi climatica origina veri e propri conflitti. Le autorità intervengono dispiegando l’esercito, addirittura scavando fossati – misure inutili, dicono molti esperti, se non dannose – invece di affrontare alla radice i problemi.
Lo sostiene, tra gli altri, Guyo Chepe Turi, in un articolo pubblicato il 3 novembre sul sito di Institute for Security Studies (Istituto per studi sulla sicurezza) dal titolo che non lascia margini a interpretazioni: Firepower won’t restore trust among Kenya’s warring Laikipia communities (La forza delle armi non potrà ripristinare in Kenya la fiducia tra le comunità in conflitto di Laikipia).
Nell’articolo afferma che i problemi nella zona hanno radici nella storia coloniale, nelle politiche post coloniali e negli interessi di politici locali, in particolare nei periodi pre-elettorali, come quello attuale (le elezioni sono programmate per l’agosto del 2022, e la campagna elettorale e già in pieno svolgimento). In sostanza, almeno in questa zona del paese, ma non solo, le crisi ambientali farebbero da detonatore di problemi mai risolti e di prassi politiche spregiudicate.
Laikipia era terra masai, il gruppo etnico più famoso del Kenya, allevatori di mandrie di migliaia di capi di bovini. Con trattati risalenti all’inizio del secolo scorso, furono convinti, in maniera non proprio trasparente e pacifica, a lasciare la loro terra a investitori coloniali britannici che ne fecero una zona di latifondo dove sviluppare aziende agricole o riserve naturali per turismo d’élite.
In cambio i masai ebbero terre molto più povere nelle regioni semiaride, soggette a ricorrenti siccità dove le loro mandrie deperivano e con loro l’identità del gruppo e la sua stessa possibilità di sopravvivenza.
I tentativi di far valere i propri diritti non hanno avuto nessun esito. Dopo l’indipendenza, i latifondi britannici sono in gran parte passati nelle mani dell’élite keniana che non ha, in cambio, messo in atto politiche efficaci a favore degli allevatori e di sviluppo delle zone semiaride del paese. Ma, sotto elezioni, i politici locali si contendono i voti a suon di promesse, che difficilmente potranno mantenere, e di accuse agli avversari, fomentando la rabbia che si aggiunge alla disperazione che non trova risposte.
Ѐ una situazione esplosiva che interessa, con ragioni diverse, gran parte delle contee del nord semiarido del paese e, in modi diversi, il paese tutto.
In questo contesto si colloca l’impegno del presidente Uhuru Kenyatta a proteggere le foreste e a usare in modo sostenibile il territorio. Un impegno preso sotto i riflettori della conferenza per il clima di Glasgow, e dunque tanto più impegnativo e pressante.
Un impegno cui dovranno seguire politiche riconoscibili ed efficaci, che coinvolgano la popolazione come protagonista della conservazione dell’ambiente e della lotta ai cambiamenti climatici, e che diano risposte a problemi annosi da tempo individuati e finora mai affrontati in modo utile al paese.