La carestia sta devastando il Sudan - Nigrizia
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Secondo il sistema accreditato dall'Onu, Ipc, è il Darfur la regione più colpita
La carestia sta devastando il Sudan
Il conflitto continua intanto, e la partita la giocano Emriati Arabi e Arabia Saudita
26 Agosto 2024
Articolo di Alex de Waal
Tempo di lettura 7 minuti
Foto di Mo Ebeid, Da Wikipedia Commons

Le Forze armate sudanesi (SAF), che sostengono il governo del presidente Abdel Fattah al-Burhan, hanno compiuto un piccolo passo per alleviare la carestia la scorsa settimana, consentendo a 15 camion umanitari delle Nazioni Unite di attraversare il confine dal Ciad per portare cibo agli affamati. Le agenzie umanitarie sperano che ciò apra la porta a uno sforzo di soccorso su vasta scala che possa salvare milioni di vite. Ma si teme che si tratti solo di una concessione simbolica: troppo ridotta e troppo tardiva. Quattro settimane fa, il sistema IPC (Integrated Food Security Phase classification), accreditato dalle Nazioni Unite, aveva affermato che esistevano condizioni di carestia in varie parti del Darfur, la regione più occidentale del Sudan.

La catastrofe umanitaria del paese è da molti mesi la più grande del mondo. Più della metà dei 45 milioni di abitanti necessita di aiuti umanitari urgenti. Gli sfollati sono oltre 12 milioni, tra cui quasi due milioni di rifugiati nei paesi vicini: Ciad, Egitto e Sud Sudan. Alcuni specialisti della sicurezza alimentare temono che circa 2,5 milioni di persone potrebbero morire di fame entro la fine di quest’anno. Sebbene le radici della fame in Sudan risiedano in decenni di cattiva gestione economica, nell’eredità di guerre devastanti e nella siccità aggravata dalla crisi climatica, il fattore scatenante della carestia odierna è l’uso della fame come arma.

Il conflitto era scoppiato nell’aprile dello scorso anno tra le SAF, comandate dal generale Abdel Fattah al-Burhan, e le Forze paramilitari di supporto rapido (RSF) guidate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, noto come “Hemetti”. La guerra in pochi mesi ha devastato le comunità sudanesi. I miliziani di RSF hanno guadagnato terreno imperversando nella capitale Khartoum, spogliandola di tutto ciò che poteva essere saccheggiato e rivenduto. Le forze paramilitari hanno anche vandalizzato infrastrutture di importanza vitale come ospedali e scuole. La stessa storia si è ripetuta ovunque siano avanzate le RSF. Le regioni del granaio cerealicolo di Gezira e Sennar, lungo il Nilo Azzurro, un luogo di vaste fattorie irrigue, sono state devastate. La gente soffre così la fame per la prima volta da generazioni.

Emergenza Darfur 
Questa ha colpito più gravemente il Darfur, soprattutto el-Fasher, l’unica città della regione ancora controllata dall’esercito e dai suoi alleati locali. Circondata dalle RSF, la città dipende da precarie vie di rifornimento che attraversano le linee di battaglia. È nel campo sfollati di Zamzam, vicino a el-Fasher, che il gruppo umanitario Medici senza frontiere (MSF) ha segnalato per la prima volta livelli di malnutrizione da carestia. Da parte sua, l’esercito è tornato alla sua strategia collaudata di isolare le aree controllate dai ribelli. La sua logica è che se riesce a soffocare le forniture esterne, i sostenitori locali di RSF ne soffriranno le conseguenze e alcune delle sue unità potrebbero disertare.

Questa tattica ha funzionato bene quando si combatteva la lunga guerra nel Sudan meridionale dal 1983 al 2005. I suoi generali si rammaricano di aver consentito all’ONU di inviare aiuti, che, a loro avviso, avevano poi sostenuto la ribellione abbastanza a lungo da consentire ai sudisti di rivendicare la propria indipendenza. La SAF controlla Port Sudan, l’unico porto del paese e la sua principale via di importazione. Ancora più importante, le Nazioni Unite riconoscono la SAF come governo sovrano.

La “cospirazione” della fame 
Anche se non ci sono truppe SAF entro 160 chilometri dal confine con il Ciad – che i trafficanti di armi attraversano a piacimento – gli esperti legali delle Nazioni Unite insistono sul fatto che i camion del Programma alimentare mondiale (PAM), devono avere il permesso ufficiale del governo per percorrere le poche miglia dalla città di confine ciadiana di Adré lungo piste di sabbia nel Darfur. E la SAF ha giocato la carta della sovranità al massimo effetto. A giugno, l’ambasciatore del Sudan presso le Nazioni Unite, Al-Harith Idriss al-Harith Mohamed, ha condannato il discorso sulla fame come una cospirazione dei nemici del paese per giustificare un eventuale intervento. Ha minacciato “Armageddon biblico” se l’ONU avesse dichiarato la carestia. Gli esperti dell’IPC hanno valutato i dati, smascherando il suo bluff e dichiarando la carestia. Le forze armate sudanesi hanno fatto marcia indietro e hanno aperto il valico di frontiera di Adré, ma solo per tre mesi. E hanno permesso l’attraversamento solo a 15 dei 131 camion degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite in attesa al confine, prima di insistere affinché iniziassero i negoziati su un regime di ispezione. I veterani degli aiuti si aspettano che i generali utilizzino ogni trucco burocratico a loro disposizione per rallentare il processo di approvazione. E il Darfur ha bisogno di migliaia di camion di cibo ogni settimana, non di un solo convoglio. Per trasportare il cibo in Ciad dai porti più vicini della costa dell’Africa occidentale ci vogliono purtroppo settimane.

La settimana scorsa il convoglio è entrato nel Darfur dal Ciad. Tuttavia, per sfamare le decine di migliaia di persone interessate è necessario aprire tutte le strade: da Port Sudan, dal Sud Sudan, e – attraverso il deserto dalla Libia – dall’Egitto. Anche i comitati di soccorso locali del Sudan hanno urgente bisogno di sostegno economico. Uno sforzo di aiuto su vasta scala, in ogni caso, richiede che le parti in guerra concordino un cessate il fuoco e pongano fine ai saccheggi e alle estorsioni. Ma segni che siano disposti a questo non se ne vedono. Nel frattempo anche i recenti colloqui di pace a Ginevra si sono conclusi senza alcun progresso sostanziale. L’incontro era stato convocato in Svizzera congiuntamente da Stati Uniti e Arabia Saudita, e l’inviato speciale degli Stati Uniti, Tom Perriello, riponeva in esso grandi speranze.

Sperava che i due generali in guerra si incontrassero faccia a faccia e firmassero un cessate il fuoco. Ma il capo delle SAF, generale al-Burhan, si è rifiutato di presenziare, come pure di inviare una delegazione di alto livello. Ha sostenuto che la RSF dovrebbe prima evacuare le sue forze dai quartieri civili – chiedendo essenzialmente il loro ritiro dai territori che avevano catturato – come precondizione per il dialogo. Perriello ha ridimensionato le sue aspettative e ha optato per colloqui di prossimità e telefonate – anche da parte del Segretario di Stato americano Anthony Blinken – sperando quantomeno di aprire strade per l’accesso umanitario. Ha ottenuto quel tanto che basta per dire che non tutto è perduto e che i colloqui riprenderanno in una data futura non specificata.

Fra Abu Dhabi e Ryad 
Tuttavia i diplomatici sanno bene che non ci sarà alcun progresso finché i principali sostenitori delle due parti: gli Emirati Arabi Uniti per le RSF, e Arabia Saudita ed Egitto per le SAF, non potranno raggiungere nessuna intesa. Fino ad ora, la rivalità tra Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti su chi dovrebbe guidare la regione ha bloccato gli sforzi di pace. Peraltro, gli Emirati Arabi Uniti in precedenza avevano rifiutato di partecipare ai colloqui nella sede di Jeddah, in Arabia Saudita, ritenendo che qualsiasi eventuale svolta positiva sarebbe stata attribuita ai loro rivali sauditi.

I quali sauditi, nel frattempo, non intendono certo permettere che siano gli Emirati Arabi Uniti a decidere su chi dovrebbe essere in futuro a governare il Sudan. Nel frattempo i combattimenti continuano e la situazione di fame si aggrava. I sudanesi si augurano, tuttavia, che, a differenza delle precedenti guerre civili durate anni se non decenni, questa possa giungere ad una conclusione rapida e pacifica. Purtroppo non si vedono per ora segnali incoraggianti.

 

 

Questo articolo è già apparso in lingua inglese sul sito di BBC. Qui è riprodotto su cortesia dell’autore. 

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