Sette anni e mezzo. Tanto ha dovuto attendere la Libia, ma adesso finalmente il paese, martoriato in questi anni da una sanguinosa e interminabile guerra civile, potrà tornare ad ospitare gare internazionali.
A confermarlo, attraverso una nota ufficiale diramata nei giorni scorsi, è stata la Caf, l’organo di governo del calcio africano: “Il Comitato di emergenza ha revocato le restrizioni di sicurezza imposte alla federazione libica per l’organizzazione delle partite internazionali sul territorio libico”.
Una decisione arrivata dopo una severa ispezione degli stadi e delle strutture ricettive di Tripoli e Bengasi, le due città più importanti del paese nordafricano, condotta nelle scorse settimane dai funzionari della Caf: “Alla verifica, è stata riscontrato un livello di preparazione soddisfacente, sia in termini di preparazione e logistica che per quanto riguarda la questione della sicurezza”, si legge nel rapporto ufficiale.
Notizia più bella non ci poteva essere per tutto il mondo del calcio libico, come ha spiegato a Nigrizia Morad Dakhil, corrispondente libico della BBC: «Una decisione importante per il paese in generale e per il calcio. Nazionali e club hanno sofferto molto durante l’ultima fase, che ha influito negativamente sui risultati delle nostre squadre.
Ad esempio, la Libia si stava per qualificare alla Coppa d’Africa 2019 in Egitto, ma giocare la gara decisiva con il Sudafrica sul campo neutro di Sfax, in Tunisia, ha sicuramente penalizzato la nostra nazionale, condizionando parecchio il passaggio del turno».
Una qualificazione purtroppo sfumata che non sarebbe stata importante solo a livello calcistico, ma avrebbe soprattutto portato con sé un significato extra sportivo dominante, per un paese già all’epoca dilaniato da 8 anni di guerra civile, dove tre governi rivendicano il potere e oltre duemila milizie armate si contendono il territorio.
Emblematico, a proposito, lo striscione esposto quel giorno dai tifosi libici sugli spalti dello Stade Taïeb-Mehiri di Sfax: “Salva un paese che non ha niente altro che il calcio. Dio salvi la Libia”.
Non stupisce, quindi, che la riapertura degli stadi ai match internazionali, aggiunta alla ripresa del campionato domestico in gennaio, venga interpretata come un segnale di rinascita dalle istituzioni del calcio libico. Come Abdulhakim Al-Shalmani, il presidente della federazione libica, apparso visibilmente soddisfatto ed entusiasta in un videomessaggio postato sui social: «È davvero una notizia fantastica. Oggi è un gran giorno per la Libia e tutti i suoi tifosi» .
Del resto, come dargli torto. Dallo scoppio della guerra civile e il conseguente rovesciamento del regime di Gheddafi nel lontano 2011 – a parte una breve parentesi durata l’arco di qualche partita fino al 2014 – la Libia non ha più avuto una dimora stabile, venendo costretta per motivi di sicurezza ad un lungo pellegrinaggio nei paesi vicini, tra cui soprattutto Tunisia e Algeria.
Addirittura, l’ultima gara dei Cavalieri del deserto – che a partire dalla storica gara col Mozambico del settembre 2011 hanno abbandonato il completo verde, colore simbolo del vecchio regime (adottando una divisa rossa e bianca con calzoncini neri, ispirata cromaticamente alle trame della nuova bandiera nazionale) – disputata davanti al pubblico amico, risale al 14 giugno del 2013, a Tripoli, contro il Togo, finita, per la cronaca con un 2 a 0.
Un digiuno lunghissimo, pronto a terminare già il 17 marzo, quando l’Al-Ahly Bengasi ospiterà gli algerini dell’ES Sétif in una gara di Confederation Cup. Lo stesso stadio, intitolato ai Martiri di Benina, dovrebbe fare da teatro, una settimana più tardi, anche al ritorno della nazionale in occasione del match con la Tunisia, valido per le qualificazioni alla prossima Coppa d’Africa. Tutta la Libia calcistica non vede l’ora che arrivi quel giorno.