C’è un nuovo Grande Gioco attorno all’Africa. In prima linea non ci sono le vecchie potenze coloniali europee né gli Stati Uniti, ma quattro emerging powers che si stanno prendendo sempre più spazio. La spartizione delle risorse energetiche e minerarie dell’Africa, e l’acquisizione della sua enorme domanda di servizi e prodotti, è un affare sempre più nelle mani di Cina, Russia, Turchia e Israele.
Matteo Giusti, giornalista, africanista e analista di Limes analizza la mappa delle influenze. Con il contributo di accademici e giornalisti, Giusti radica l’attualità nella Storia. Ogni giorno dall’Africa ci arrivano notizie sulle sortite dei mercenari del gruppo Wagner in Repubblica Centrafricana, Mali e Libia, sull’aggressività di Ankara nel Mediterraneo, sul soft power cinese, un po’ sul lavoro sottotraccia del Mossad per portare più supporter alla causa israeliana. Ma cosa è successo prima di tutto ciò? Nello sforzo dell’autore di rispondere a questa domanda in modo chiaro, con la rassegna di date, luoghi e protagonisti di avvenimenti determinati, c’è il senso di questo saggio.
È bene dunque ricordarsi che prima delle prove muscolari sfoggiate dal Cremlino negli ultimi anni, l’Unione Sovietica aveva sposato la linea terzomondista cercando di ritagliarsi un ruolo attivo nella lotta per l’indipendenza di tanti paesi africani, Angola in primis. «Al crollo del regime sovietico nel 1991, sottolinea però giustamente Giusti, la maggior parte dei paesi africani che avevano seguito la via socialista si ritrovarono più poveri e con al potere una classe dirigente radicalizzata che sapeva solo chiedere soldi alla Grande Madre Russia». E questo portò «a un rapido raffreddamento dei rapporti russo-africani».
Anche quella tra Cina e Africa è una storia che parte da lontano. Pechino ha sempre ambito alle materie prime del continente per alimentare la crescita e lo sviluppo del proprio impero, e durante il maoismo questo interesse è diventato sistematico secondo uno schema – autostrade, linee ferroviarie e nuove città senza pretendere in cambio “conversioni democratiche” alle controparti africane – estremizzato oggi da Xi Jinping.
Nella corsa della Turchia ai tesori africani ci si dimentica che prima di Recep Tayyip Erdogan i semi del radicamento di Ankara nel continente «erano stati piantati nel 1998 dall’allora ministro degli esteri Ismail Cem, che ridette vigore e spinta a velleità sopite da tempo e che adesso potevano riprendere la loro vitalità fondamentale», facendo anche leva sull’islam. Per ciò che concerne Israele, infine, nell’incrinatura delle relazioni l’anno da cerchiare in rosso è il 1973 quando, con la Guerra del Kippur, molti stati africani si schierarono dalla parte dell’Egitto.
Rapporti che sono poi naufragati con la questione palestinese, con l’Unione africana che nel febbraio del 2022 ha sospeso Israele dal ruolo di osservatore.
Eppure in prefazione Sergio Romano, diplomatico di lungo corso, spiega che l’Occidente non è ancora del tutto tagliato fuori da questa partita. «Anche per gli europei sono gli interessi economici a muovere tutto, e credo che in questo nuovo scenario possano guadagnarci tutti, anche gli Stati africani che in passato non avevano mai ottenuto relazioni paritetiche con i colonialisti». Ma perché ciò avvenga è necessario «superare l’idea di porsi come quelli che vogliono educare (…) ». Per farlo bisognerebbe però prima aver preso nota delle lezioni del passato. E su questo l’Occidente non ha la memoria lunga.