«Un’interrogazione che faccia luce non solo su quel che è accaduto, ma su quel che non sta accadendo». La conferenza stampa “Alla prova della verità. Un processo trasparente per Moussa Diarra” si chiude con questa affermazione della senatrice di Alleanza Verdi Sinistra Ilaria Cucchi, che ha organizzato a Roma, nella sala Caduti di Nassirya di palazzo Madama questo momento.
Cucchi, con la voce commossa, ripercorre la storia di Moussa Diarra, il ragazzo maliano ucciso la mattina del 20 ottobre nella stazione di Verona Porta Nuova da un poliziotto della PolFer, la polizia ferroviaria. Moussa, che perde il fratello più piccolo in quel viaggio. Moussa che ha conosciuto i centri di detenzione libici che l’Italia finanzia e dove, lo dirà il fratello, ha subito di tutto.
Moussa che ha pagato per arrivare a Lampedusa, nel 2016, e che di permessi per rimanere in Italia ne ha dovuti richiedere due. Perché con il Decreto sicurezza Salvini del 2018 la sua protezione umanitaria non esisteva più e allo stesso tempo non era tramutabile in permesso di soggiorno.
Moussa che, come spesso capita alle persone migranti, è dovuto ripartire dal via, prima in un CAS (Centro di accoglienza straordinaria) a Verona e poi, nonostante la regolarizzazione e il lavoro, in una casa occupata con il laboratorio autonomo Paratodos. «Unico spazio a Verona a essersi preso la responsabilità di dare una casa alle persone regolari, con contratto di lavoro, che non trovano alloggio in città», racconta la senatrice.
Poi arriva alla mattina del 20 di ottobre, la mattina dell’uccisione. Cucchi racconta quel che presumibilmente è accaduto chiedendosi perché «nessuno ha chiamato una ambulanza davanti allo stato del ragazzo; perché si è dovuto intervenire con la forza: perché davanti a un bisogno di cura si è risposto con un colpo di pistola».
I comunicati di Procura, Questura e le telecamere
È in questo momento che la narrazione cambia e si passa alla denuncia. A quel comunicato congiunto di Procura e Questura, di cui su Nigrizia.it abbiamo già scritto, in cui si legge che si passeranno al vaglio «tutte le immagini registrate dalle numerose telecamere presenti nella zona».
Immagini che poi si scoprirà che non ci sono, non almeno quelle più necessarie, quelle che riprendono il piazzale della stazione dove il poliziotto uccide Diarra, sparando tre colpi. Uno in aria, due, tra cui quello mortale, ad altezza d’uomo.
Una mancanza, lo racconta anche il fratello di Moussa, Djemanga Diarra, di cui si saprà solo un mese dopo. Quasi per caso. Dalla stampa. Una mancanza grave, che di fatto fa cadere quella seconda affermazione del comunicato che mette insieme chi indaga e chi deve essere indagato: «L’indagine potrà quindi avvalersi di riscontri oggettivi che saranno fondamentali per una ricostruzione completa ed imparziale di quanto accaduto».
Telecamere che, fino a quel momento, erano state riportate in vari articoli della stampa, avvalorando quanto scritto in un comunicato anche dal procuratore di Verona Raffaele Tito, il giorno dopo la morte: «contesto di legittima difesa».
Un contesto che, lo chiederanno poi l’avvocata Paola Malavolta e Giorgio Brasola di Paratodos, ha bisogno di essere chiarito da chi c’era quella mattina e può aver visto. Per ora sono due le persone che si sono presentate per raccontare. Ma l’appello rimane ed è quanto mai urgente e necessario.
Le domande inevase e il giubbotto
Ciò che a oggi non sta accadendo è la chiarezza. L’avvocata Malavolta ha appreso dai media la mancanza delle immagini, come un lettore qualsiasi. E alle richieste inviate via PEC a tutte le realtà possibili che transitano per la stazione, dalle Ferrovie a Italo, da Spizzico alla tabaccheria, per sapere chi vi fosse di turno quella mattina per poter ricostruire l’accaduto, ha ricevuto una sola risposta. Da Italo. Poi silenzio.
Nessuna risposta dalla Prefettura per comprendere se ci sia stata una segnalazione di Moussa Diarra e del suo stato di alterazione, che inizia alle 5 di quel 20 ottobre, con un incontro/scontro con la polizia municipale, e finisce intorno alle 7 con il colpo di pistola.
Nessuna risposta dalle Ferrovie sui turni delle persone dipendenti che potrebbero dare testimonianza, a partire da quelli della biglietteria. Tutto tace, mentre l’avvocata continua a chiedere, così come il Comitato Verità e Giustizia per Moussa Diarra, rappresentato in aula da Youssef Moukrim.
Moukrim che ripercorre quanto scritto da Mackda Ghebremariam Tesfaù sul Manifesto, su quanti siano i colpi ad aver ucciso il giovane maliano fino a quel giorno: il governo italiano con gli accordi con la Libia, il Decreto sicurezza Salvini che gli ha cancellato l’umanitaria, il Comune di Verona che non ha dato risposta, l’agente della PolFer, la stampa che lo ha descritto come un mostro e la frase di Matteo Salvini.
E, proprio mentre la conferenza stampa sta per concludersi, arriva il colpo di scena finale: Giorgio Brasola del Paratodos, il laboratorio sociale che ha occupato la casa dove il ragazzo viveva, mostra un giubbotto come quello indossato da Moussa il giorno della sua morte. «Potete vedere qua due fori. Uno all’altezza del cappuccio, quel metro e 52 del colpo che poi va a ficcarsi sulla pensilina, l’altro qua, all’altezza del cuore. Lo sparo che ha ucciso Moussa».
A oggi di quei tre spari chi è in sala Caduti di Nassirya sa ben poco, ma nessuna delle persone seduta al tavolo di palazzo Madama finirà di chiedere chiarezza. «Vogliamo che si faccia luce non solo su quel che è accaduto, ma su quel che non sta accadendo».