La salute mentale dei migranti forzati e dei richiedenti asilo è un tema di cui in Italia non ci si occupa abbastanza. Tra le infinite speculazioni che circolano nel dibattito pubblico del nostro paese sul fenomeno migratorio, non ci si interroga quasi per niente su quali siano le conseguenze di una così scarsa tutela nel percorso di integrazione. Eppure, l’impatto di questo problema sulle vite di chi arriva in Italia è enorme. Spesso determinante. Ma per nulla preso in considerazione dalle istituzioni.
I “Decreti sicurezza” del 2018, tra i vari tagli drastici dei fondi destinati ai Centri di accoglienza straordinaria (Cas), hanno infatti rimosso la funzione del supporto psicologico, lasciando solo la possibilità di ricorrere alle consulenze di un professionista per un numero estremamente limitato di ore. Una misura del tutto insufficiente, che dimostra la totale sottovalutazione del fenomeno.
Esperienze traumatiche dell’esperienza migratoria: tre fasi
Lo psichiatra Roberto Maisto, socio-fondatore della onlus Metis Africa e parte del gruppo di curatori delle Linee guida presentate dal Ministero della salute nel 2017 per il trattamento dei disturbi psichici nei rifugiati, spiega a Nigrizia come nella vita di un richiedente asilo ci siano almeno tre fasi critiche per il possibile sviluppo di problemi psicopatologici.
La prima è in patria, dove avviene «il primo strappo»: la persona è spesso esposta a guerre, conflitti armati, persecuzioni e altri eventi traumatici. La seconda è rappresentata dalla rotta, dove violenze, torture e privazioni di ogni sorta sono purtroppo all’ordine del giorno, come riprova anche l’ultimo report pubblicato dall’Onu sulle gravissime violazioni dei diritti umani che si verificano in Libia – e che l’Europa continua a sminuire.
Infine, la terza: l’arrivo. Sembra la fine del tunnel, ma in realtà è un momento molto difficile e delicato dal punto di vista psicologico.
«All’arrivo ci sono alcuni meccanismi che acuiscono la sofferenza, per esempio tutte le attese a cui vanno incontro e a cui spesso non sono preparati. Le persone sono profondamente infragilite, non tutti hanno le stesse capacità di resilienza. Dopo anni di rotta può subentrare quella che viene definita la “sindrome del migrante esausto”, c’è il bisogno fisiologico di riprendersi. Anche il dover fare memoria in fretta di quanto è successo, per prepararsi all’incontro con la commissione territoriale può diventare un grande fattore di stress. Non è facile ricordare. Il sistema di accoglienza è in prima linea su questo fronte, ma non sempre riesce a intercettare e a interpretare i segni premonitori dei disagi più complessi».
Questo perché manca psicoeducazione, cosa per altro non richiesta agli operatori, che rischiano quindi di fraintendere i segnali di sofferenza. Parliamo, ad esempio, dei sintomi da stress post-traumatico (Ptsd), che colpiscono la quasi totalità dei richiedenti asilo: stando ai dati raccolti dall’associazione Medici per i diritti umani (Medu) durante un’indagine svolta nel 2020, l’80-90% dei migranti sbarcati in Italia hanno subito traumi estremi e l’80% di quelli ospitati nei centri di accoglienza presenta Ptsd.
Questi sintomi vengono spesso confusi con pigrizia, svogliatezza, scarso desiderio di integrazione, o aggressività. Un misunderstanding che può appiccicare alla persona richiedente asilo uno stigma pericoloso e che rischia di penalizzare molto il suo percorso di integrazione.
L’importanza del supporto psicologico
Shirin, rifugiata afghana arrivata in Italia dopo cinque anni di rotta, racconta delle enormi difficoltà riscontrate dal punto di vista psicologico ed emotivo una volta arrivata in Italia:
«Il giorno in cui sono arrivata in Italia, dopo che così tante vicissitudini hanno creato ferite profonde nel mio cuore, ho pensato che i problemi fossero finiti. Invece, mi sono sentita abbandonata e sola, in una società che era molto poco familiare per me. Non solo le mie ferite non sono guarite, ma la paura per il futuro, di non avere una casa e la sensazione di solitudine sono diventate ferite ancora più grandi. Perché è così che i migranti arrivano in Europa: pieni di incertezze, alienati e soli.
Mi sono chiesta, è per questo che ho sopportato tanto? Penso che chi ha affrontato tutto questo, quando arriva in Europa, abbia bisogno del sostegno psicologico più di ogni altra cosa. Abbiamo subito lesioni gravi, abbiamo bisogno di cura per guarire dai nostri traumi e trovare la pace spirituale. Come possiamo riprendere la vita normalmente, senza aiuto? Ma questo non viene capito, una delle cose peggiori per me è stato vedere che gli operatori della cooperativa mi consideravano solo pigra, come se volessi solo mangiare e dormire. Ma non siamo pigri: gli immigrati hanno gravi danni psicologici ed emotivi».
I limiti dei centri di accoglienza
Un supporto psicologico è una cura che molte cooperative vorrebbero offrire, ma non possono, se non in misura estremamente limitata, a causa delle disposizioni attualmente vigenti. Le ore specifiche garantite per la figura dello psicologo variano in base alle città e alle regioni, ma in Veneto, per esempio, si aggirano intorno alle 6-8 ore di assistenza psicologica settimanale ogni 100 utenti. «Con questi numeri, il servizio diventa assolutamente irrisorio e inutile». A dirlo è Ginevra Guarnieri, psicologa presso i Cas di Padova.
«Non puoi dare un setting, non c’è nessuna continuità, non puoi avere un impatto su di loro. Nella maggior parte dei casi, è l’operatore a chiedere la consulenza per l’utente, non il richiedente asilo. Così capita che loro arrivino che non hanno nemmeno ben presente chi sono, cosa significa il nostro incontro e il tempo si vanifica ancora di più». Spesso, mancano proprio gli spazi. Non ricoprendo un ruolo fisso, raramente le cooperative hanno la possibilità di adibire uno studio per il lavoro di consulenza dello psicologo. «Il risultato è che spesso gli incontri avvengono nelle case degli utenti, dove non c’è nessuna privacy. Per avere più intimità può capitare di farli persino per strada!».
Questa carenza non incide soltanto nella possibilità di riconoscere i sintomi da stress post-traumatico, ma anche nella diagnosi dei disturbi psichiatrici. Nel 2005, uno studio condotto negli Stati Uniti attraverso la piattaforma Medline ha evidenziato come una storia personale di immigrazione possa essere un importante fattore di rischio per lo sviluppo della schizofrenia, in un soggetto predisposto. Un fattore incentivato dal fatto che in questo momento storico, le rotte migratorie vengono percorse da persone che hanno nella maggior parte dei casi un’età compresa tra i 15 e i 30 anni, l’età critica per l’emersione delle patologie psichiatriche.
«Se c’è altro oltre ai Ptsd, è importante sottolineare che è un qualcosa che poteva non emergere nel paziente e che invece è emerso a causa di un evento scatenante, che può essere la rotta, come la vita qui. Se a un utente viene diagnosticata una patologia psichiatrica, la strada diventa molto difficile. Ci sono i Centri di salute mentale (Csm), dove però una persona tendenzialmente non viene presa in cura, vengono per lo più prescritti dei farmaci», spiega Guarnieri.
Un problema sottolineato anche dagli operatori delle cooperative che lavorano nei Cas, come Vincenzo Carlomagno: «Di sintomi da stress post traumatico ne hanno quasi tutti. Poi ovviamente ognuno li manifesta in modo diverso. Due bambine ucraine per esempio hanno avuto per mesi uno sfogo sulla pelle, che viene dopo aver subito un forte stress. Chi presenta questa problematica può essere seguito bene, abbiamo gli strumenti. Ma gli altri no. Per occuparci dei pazienti psichiatrici, noi dei Cas non abbiamo risorse. Il bando per i Cas non lo prevede, manca completamente una progettualità. Quando ci capitano situazioni di utenti che sviluppano problemi psichiatrici, noi cerchiamo in tutti modi di trovare un buon progetto in cui inserirli, perché possano venire seguiti e curati. Ma c’è poco. Il risultato è che il migrante che sviluppa una malattia psichiatrica finisce col diventare un senza fissa dimora.»
L’importanza della formazione specifica
«Il nostro obiettivo», sottolinea Maisto, «è far sì che al paziente richiedente asilo venga riconosciuto lo stesso diritto alla cura che viene riconosciuto a quello italiano. Purtroppo non sempre è così. Deve esserci una buona sinergia tra le strutture statali e le organizzazioni, le associazioni. In Italia, spesso manca la formazione specifica. Circa vent’anni fa, è stata condotta un’indagine per capire se i migranti si ammalano di più rispetto ai non migranti. Allora sembrava di sì, in percentuale. Allora dal 2001 al 2011 è stata offerta di conseguenza una formazione specifica per i problemi sanitari legati alle esperienze migratorie. Dopo dieci anni quindi è stata rifatta la stessa indagine, e si è visto che le cose andavano meglio. Questo perché una preparazione adeguata e mirata nel settore è fondamentale».
Purtroppo, la formazione offerta non è ancora sufficiente e lo stato italiano presenta ancora grandi carenze. La realtà è che se affetta da malattie psichiatriche, la persona richiedente asilo diventa ancora più sola. Le strutture in grado di prendere in carico migranti con problemi psichiatrici sono poche e spesso meno attrezzate di quanto dovrebbero.
Se i problemi iniziano a manifestarsi in maniera importante, per esempio con eccessi d’ira o abuso di sostanze, la prefettura può scegliere di allontanare l’utente dal progetto di accoglienza, portandolo a vivere per strada e annullando la speranza che possa accedere alle cure. A quel punto, un altro rischio importante è che la persona venga spedita nei Centri per il rimpatrio (Cpr), a causa di illecito amministrativo, poiché senza residenza non possono rinnovare il permesso di soggiorno.