La storia di Souleymane di Boris Lojkine, premiato a Cannes 2024 nella sezione Un certain regard con Premio della Giuria e Premio per il Miglior Attore, è il resoconto à bout de souffle di due giorni della vita di Souleymane, arrivato a Parigi dalla Guinea e in attesa del colloquio con l’Ofpra (l’Office français de protection des réfugiés et apatrides) che determinerà il suo destino, accettando o respingendo la sua richiesta di asilo politico.
Sono due giorni cruciali perché Souleymane deve recuperare dei documenti che dovrà sottoporre alla Commissione per dimostrare la veridicità della sua storia. Per avere i documenti deve pagare Barry, un connazionale che vende consulenze e documenti falsificati ai numerosi guineani che aspirano al diritto d’asilo.
I soldi li guadagna sfrecciando per le vie trafficate di Parigi, consegnando cibo a domicilio con l’account di Emmanuel, un ragazzo camerunense che lavora come commesso in un supermercato e che si prende una percentuale esagerata sul misero guadagno di Souleymane.
«Devi darti da fare, ancora di più, non guadagni abbastanza» lo incalza Emmanuel tutte le volte che Souleymane corre da lui per avere il selfie che garantisce sia lui l’effettivo proprietario dell’account.
Ma correre non è sufficiente ed è pericoloso. Se si inceppa anche solo un piccolo ingranaggio tutto rischia di saltare. È una versione contemporanea della catena di montaggio, senza però l’elemento sociale della lotta di classe.
È un sistema dove apparentemente tutti sfruttano tutti e tutti fregano tutti. Ci sono pochi spazi di solidarietà, piccoli spiragli di umanità in un sistema dove il denaro e lo sfruttamento sembrano vincere, anche solo per mera sopravvivenza. La catena di Souleymane si spezza quando il ragazzo viene investito da una macchina.
L’impatto apparentemente non ha serie conseguenze ma il sacchetto del cibo si ammacca e la cliente rifiuta l’ordine gettando Souleymane nel panico. Non solo per i soldi ma anche per il rischio che l’account venga bloccato.
La pressione aumenta, i soldi per Barry non ci sono. Souleymane è preoccupato perché ancora non ha memorizzato perfettamente la storia che deve raccontare. Deve fingere di aver lasciato la Guinea per motivazioni politiche, di aver aderito ad un Partito di cui condivide il programma, di essere stato arrestato e picchiato.
È una storia che non gli entra in testa. La politica non fa per lui, vorrebbe cambiare ma Barry lo rassicura, gli registra degli audio, con informazioni utili. Souleymane cerca di recuperare dettagli utili anche da altri guineani ma nessuno sembra avere tempo né voglia.
E lo stesso Souleymane non ha tempo neanche per uno scambio di battute con i suoi connazionali, non c’è tempo per gli scherzi né per consigli per i nuovi arrivati. E la corsa continua anche quando è finito il lavoro perché il bus che lo porterà al dormitorio non aspetta. E poi ogni mattina, all’alba, bisogna prenotare il posto per quel bus…
In questo mondo prevalentemente maschile che sembra vorticare intorno alla sopravvivenza e allo sfruttamento del più debole ci sono solo due voci femminili. Due donne che sono rimaste in Guinea e che aspettano Souleymane. C’è la madre malata e Kadiatou, la giovane fidanzata innamorata che sarebbe disposta a fare il viaggio in mare per raggiungerlo…
È Souleymane che ha il compito di riportarla alla realtà e di consigliarla a malincuore di sposare l’ingegnere che le ha chiesto la mano.
La corsa di Souleymane si interrompe solo quando finalmente arriva il giorno del colloquio. E qui il film si apre ad un altro ritmo dove la parola ritrova tempo e spazio. Souleymane potrà raccontare la sua storia ma dovrà fare i conti con un sistema distorto dove la finzione e la menzogna sembrano le uniche strade per ottenere la protezione.
Il regista, nelle note del pressbook, racconta che voleva fare un film sui rider, estremamente visibili eppure invisibili perché senza documenti. Con l’intento di partire da una solida base documentaristica, insieme alla cosceneggiatrice ha incontrato ed intervistato molti rider, scoprendo che quasi tutti erano o erano stati ossessionati dalla richiesta di asilo.
Un tema, quello della richiesta dell’asilo politico, complesso, come è complesso e distorto lo stesso sistema di richiesta dell’asilo. Per una scelta che lo stesso regista definisce politica e antiretorica, il protagonista doveva essere un uomo che accetta di mentire, pur di raggiungere il proprio obiettivo.
Con questo presupposto la drammaturgia è stata costruita pensando più al genere del thriller che a quello della cronaca sociale, confermando tra l’altro come il noir nelle sue diverse sfumature riesca ultimamente a raccontare molto bene la realtà del contemporaneo. Pensiamo per esempio a Noir Casablanca.
Innegabile la bravura di Abou Sangaré che interpreta Souleymane, riuscendo a rendere credibile il personaggio. Nella vita reale Abou Sangaré è un ragazzo guineano di 24 anni, in Francia da 8 anni, ancora senza documenti nonstante abbia richiesto il diritto di asilo per ben 4 volte.
Abou lavora come meccanico e così come il suo personaggio non si interessa di politica. Per arrivare in Francia è passato in Libia subendo torture e soprusi. Per interpretare il ruolo ha dovuto imparare i trucchi, i gesti, i segreti del mestiere del rider.
Allo stesso modo il regista si è immerso nella comunità guineana di Parigi e nei meccanismi dell’Ofpra, ascoltando le interviste dei richiedenti e confrontandosi con chi le interviste le registra, per avere un duplice punto di vista e non cadere in facili cliché.
Funziona, infatti, il personaggio della donna che realizza l’intervista a Souleymane, incastrata tra l’empatia che prova per il ragazzo e le regole dell’istituzione per la quale lavora.
La sfida era inserire il dispositivo del cinema nel reale e portare il massimo di reale nella finzione. Fondamentale riuscire a filmare Parigi da una prospettiva diversa, scivolare dentro la città, con una troupe ridotta, affrontando il traffico reale che diventa così colonna sonora naturale del film.
Le scene con dialoghi complessi sono state intenzionalmente inserite nel cuore della vita della città: dentro la RER, in mezzo al traffico, in mezzo alla folla.
La sfida è vinta perché La storia di Souleymane riesce a raccontare con gli strumenti drammaturgici della finzione cinematografica una storia contemporanea di migrazione dall’Africa all’Europa. Una storia precisa, ancorata nel reale ma emblematica della situazione di tanti migranti africani arrivati in Europa con la speranza di costruirsi una nuova vita.
E il regista coglie il punto quando osserva che il dramma non è rappresentato come in Ladri di biciclette dal furto della bici ma dalla difficoltà di ottenere il permesso d’asilo. La bici si ricompra o al limite si ruba, il permesso di soggiorno no.
Anche per questo, ma non solo, La storia di Souleymane arriva al cuore del problema a differenza per esempio di Anywhere Anytime. Così come Une saison en France di Mahamat-Saleh Haroun era riuscito a raccontare il dramma dei richiedenti asilo.
Boris Lojkine, già regista di Hope (2014), storia di una ragazza nigeriana e di un ragazzo camerunese che affrontano il viaggio dall’Africa all’Europa e di Camille (2019), biopic sulla fotografa Camille Lepage uccisa in Repubblica Centrafricana, conferma la sua capacità di usare il cinema per raccontare senza retorica le contraddizioni del reale.