Successivamente al Rapporto Brahimi del 2000, le Nazioni Unite hanno affrontato il problema del ripensamento delle missioni di peacekeeping dovuto al mutamento di morfologia dei conflitti a livello globale, ciò che ha spianato la strada ad operazioni di peacekeeping multidimensionali.
Questo rimodellamento ha messo in primo piano la questione dell’integrazione di una prospettiva di genere all’interno di missioni di peacekeeping e di altre operazioni internazionali, attuata a partire dal 2000 mediante la risoluzione 1325 del Consiglio di sicurezza su Donne, Pace e Sicurezza (Wps), che affronta proprio l’impatto sproporzionato dei conflitti armati sulle donne e riconosce il contributo, spesso sottovalutato, del personale femminile nella prevenzione e risoluzione dei conflitti e nelle operazioni internazionali.
Quindi, questa risoluzione consacra il ruolo determinante delle donne nella prevenzione e soluzione dei conflitti, nelle negoziazioni per la pace, nel peacebuilding, nel peacekeeping, nella risposta umanitaria e nella ricostruzione post bellica. La risoluzione, inoltre, sottolinea la rilevanza della partecipazione paritaria e del pieno coinvolgimento delle donne in tutti gli sforzi per il mantenimento e la promozione della pace e della sicurezza.
Purtroppo però, le donne continuano ad essere presenti nelle operazioni internazionali in numero eccessivamente inferiore agli uomini. Inoltre, solo una minima parte è coinvolta nei processi decisionali, a causa di pregiudizi storici, stereotipi di genere, sottovalutazione delle problematiche di genere a tutti i livelli e normative discriminatorie che avvantaggiano il genere maschile.
Promotrici di pace
Il ruolo delle donne è invece particolarmente rilevante per il successo dei processi di pace.
Il 22 giugno 2011 l’Assemblea generale ha approvato all’unanimità una risoluzione (la A/RES/65/283) sul “Rafforzamento del ruolo della mediazione nella soluzione pacifica delle controversie, prevenzione e risoluzione dei conflitti” che incoraggia a irrobustire il ruolo delle donne negli sforzi di risoluzione dei conflitti e a favorire la loro partecipazione ai processi di pace.
Ѐ stato riscontrato, infatti, che la presenza delle donne nelle operazioni di peacekeeping ha reso i processi di pace più duraturi, sostenibili e efficaci rispetto ai casi in cui il processo è portato avanti solo da uomini.
Ѐ comprovato, dunque, che escludere le donne da questi processi significa limitare l’accesso alle opportunità di risanare l’economia, ottenere giustizia per le violazioni dei diritti umani e partecipare nella predisposizione di legislazioni adeguate.
Purtroppo, anche in questo caso è stato osservato che, malgrado vi siano state donne a capo di movimenti per la pace impegnate nella ripresa delle comunità nelle situazioni postbelliche, esse sono quasi del tutto estromesse dai negoziati per la pace e dai processi di ricostruzione.
Diversa prospettiva
Anche il ruolo delle donne nella mediazione deve essere riconsiderato. Le strategie di mediazione che includono le donne e la società civile offrono, infatti, maggiori probabilità di rafforzare una più ampia responsabilità nazionale nel processo di rimodellamento degli scenari politici, socioeconomici e di sicurezza, necessari come substrato per una pace durevole e sostenibile.
Ѐ stato notato che i punti di vista delle donne apportano una diversa comprensione delle cause e delle conseguenze delle ostilità, generando proposte più esaurienti e potenzialmente mirate alla soluzione del conflitto.
Esiste una guida volta a delineare la partecipazione delle donne nei processi di mediazione, la Guidance on core UN gender inclusive mediation commitments, in base alla quale i mediatori e i loro team dovrebbero: utilizzare strumenti normativi e giuridici per promuovere un’effettiva partecipazione delle donne alla soluzione pacifica delle controversie; sviluppare e predisporre strategie concrete in materia di genere e mediazione per incrementare l’inclusione significativa delle donne, in particolare nelle posizioni di leadership nell’ambito dei negoziati formali di pace.
E ancora: avviare un dialogo tra le parti coinvolte nel conflitto per chiedere di impegnarsi a cessare tutti gli atti di violenza sessuale correlati, in conformità con il diritto internazionale; eseguire consultazioni sistematiche con la società civile, le associazioni femminili e le vittime di violenza sessuale nel ristabilimento della pace; incoraggiare le parti coinvolte a incrementare la partecipazione delle donne, anche tramite la promozione di misure speciali temporanee come le quote rosa.
E sono molte le reti di donne mediatrici nate e cresciute negli ultimi anni anche in Africa. Tra queste ricordiamo Women mediators across the Commonwealth (Wmc), African women mediators (Fem Wise-Africa), Femmes Africa solidarité (Fas), Nordic women mediators (Nwm) e la Rete delle donne mediatrici nel Mediterraneo (Mediterranean women mediators network – Mwmn).
Alla fine di irrobustire il ruolo delle donne in tutte le fasi della prevenzione dei conflitti, il 18 ottobre 2013, il Consiglio di sicurezza ha adottato un’altra risoluzione (la 2122) che prevede una serie di misure più incisive a favore delle donne, imponendo agli Stati membri, alle organizzazioni regionali e all’Onu l’onere di garantire loro la possibilità di partecipare alle trattative di pace.
L’esempio di Betty Oyella-Bigombe
Nell’ambito dell’attività di mediazione, si può ricordare il ruolo svolto da Betty Oyella-Bigombe in Uganda, paese interessato da numerosi conflitti interni con varie milizie ribelli, tra cui l’Esercito di resistenza del Signore (Lord’s Resistance Army – Lra) alla cui guida vi è Joseph Kony, da decenni ricercato dalla Corte penale internazionale in quanto accusato di crimini di guerra e contro l‘umanità.
Nel 1993 Betty Oyella-Bigombe stabilì un contatto con Kony, recandosi nella foresta, proprio per favorire il dialogo tra Kony e i rappresentanti governativi e porre fine alle violenze. Questo primo contatto portò in seguito a dei veri negoziati tra i ribelli e i ministri ugandesi, noti come Bigombe talks, ai quali assistettero numerosi esponenti della comunità internazionale.
La donna assunse il ruolo di capo negoziatrice a nome del governo dell’Uganda, divenedo poi mediatrice indipendente nell’ambito del processo di pace e riuscendo a far ratificare una legge sull’amnistia che avrebbe fatto uscire allo scoperto i ribelli, conducendoli al tavolo dei negoziati, poi falliti.
Bigombe portò avanti la sua missione nonostante intimidazioni, minacce di morte e pregiudizi legati alla sua figura di donna coinvolta in un compito tradizionalmente attribuito agli uomini. Fu nominata donna dell’anno dell’Uganda nel 1994.
Quello di Betty Oyella-Bigombe resta tuttavia un caso raro. Nonostante gli sforzi e i buoni propositi, il ruolo delle donne e la parità di genere nella risoluzione dei conflitti rimangono marginali all’interno dei processi di risoluzione del conflitto e di ricostruzione postbellica, nonostante l’esistenza di diverse risoluzioni e di molti impegni presi negli ultimi 23 anni per incrementare la partecipazione femminile ai processi di mediazione e di pace.