Martedì 2 settembre, la Camera dei rappresentanti con sede a Bengasi, nella Libia orientale, e l’Alto Consiglio di stato di Tripoli, a ovest, hanno firmato una dichiarazione congiunta dopo due giorni di colloqui ospitati dalla Missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia (UNSMIL)
I due organi legislativi della Libia hanno concordato di nominare congiuntamente un governatore della banca centrale, potenzialmente disinnescando la battaglia per il controllo delle entrate petrolifere del paese, che ha ridotto la produzione.
Hanno concordato di nominare un governatore della banca centrale e un consiglio di amministrazione entro 30 giorni. La Banca centrale libica è l’unica depositaria legale delle entrate petrolifere libiche e paga gli stipendi statali in tutto il paese.
Le due Camere hanno inoltre concordato di prorogare le consultazioni di cinque giorni, concludendole il 9 settembre.
L’ennesima crisi libica era scoppiata dopo la decisione del Consiglio presidenziale (organo tripartito che svolge le funzioni di capo di stato e di comandante supremo delle Forze armate e che ha sede a Tripoli) di sostituire il governatore della Banca, Al Siddiq al Kabir, in carica dalla fine del 2011, e di ristrutturare il consiglio di amministrazione.
Una scelta mal digerita a est. Il Governo di stabilità nazionale (quello di Bengasi) ha proclamato, come ritorsione, lo stato di forza maggiore su tutti i giacimenti petroliferi sospendendo la produzione e le esportazioni di petrolio fino a nuovo avviso.
Ora il presunto accordo tra i due organi legislativi della Libia pare aver attenuato il conflitto.
Un segnale arriva dal prezzo del petrolio in discesa.
Secondo Reuters, è crollato di circa il 5%: ieri il prezzo al barile era sceso a 73,75 dollari, il livello più basso degli ultimi 9 mesi.
Un ritardo degli stipendi
I conflitti per il controllo della principale istituzione finanziaria libica ha gettato un’ombra su altri aspetti dell’economia, colpendo i lavoratori con ritardi nell’erogazione degli stipendi e causando una crisi nelle transazioni bancarie.
L’economia del paese petrolifero dipende fortemente dalle importazioni di semilavorati, prodotti alimentari e beni di consumo, con la Turchia che è il suo principale fornitori e con l’Italia che si piazza al secondo posto.
Il figlio di Haftar nel Niger
Ma sul fronte interno, ci sono altri sommovimenti. Secondo quanto riportato da Agenzia Nova il 3 settembre, Saddam Haftar, figlio del comandante dell’Esercito nazionale libico, Khalifa Haftar, è stato inviato per la seconda volta nella capitale nigerina Niamey per negoziare un possibile controllo dell’ex base militare francese di Madama con la giunta militare al potere.
Al potere in Cirenaica e nel Fezzan, il clan Haftar starebbe negoziando il controllo di quell’ex base militare perchè area strategica per il controllo dei flussi migratori (e non solo).
Poche settimane prima della visita di Saddam, una delegazione nigerina guidata dal ministro dell’interno, il generale Mohamed Toumba, accompagnato da ufficiali dei servizi segreti e funzionari vicini al generale Abderrahmane Tchiani, salito al potere in seguito al colpo di Stato del luglio 2023, si era recata in visita a Bengasi,
Secondo quanto appreso dall’ Agenzia Nova, dietro questi costanti contatti ci sarebbe un ampio piano commerciale su più fronti, che prevede la fornitura al Niger di carburante, prodotti petroliferi e generi alimentari di base, oltre a concedere significativi investimenti agli Haftar nei settori dell’agricoltura e dell’immobiliare.
Il ruolo russo
L’ex base francese è un ex fortino coloniale costruito nel 1930 per fermare l’espansione italiana in Libia. La base, ammodernata nel 2014 per ospitare una pista di 1.800 metri, aree di parcheggio per velivoli e piazzole per elicotteri, fungerà da base logistica per il trasferimento di armi, munizioni ed equipaggiamenti militari via aerea, da trasportare successivamente in Libia, distante meno di 100 chilometri, o in altre aree del Sahel.
La presenza militare libica dovrebbe essere affiancata dalla Russia, alleata di entrambe le parti, con l’obiettivo “ufficiale” di garantire la sicurezza di una zona che nel 2017 avrebbe dovuto essere presidiata da 500 soldati italiani (poi dirottati a Niamey) e da cui le forze francesi si sono ritirate nel 2019, smantellando la maggior parte delle attrezzature, ma mantenendo ancora alcune infrastrutture utilizzabili.