Non accenna a placarsi la crisi politica in Libia. I primi a farne le spese sono ancora una volta i migranti. L’ultima strage nella notte tra il 10 e l’11 marzo scorso è costata la vita a 30 persone, mentre solo 17 sono riuscite a salvarsi, dopo l’allerta lanciata da Alarm Phone. Ancora una volta non sono mancate le accuse reciproche in merito alle responsabilità dell’intervento tra Italia e Libia, che hanno fatto prevalere omissione e ritardi dei soccorsi al coordinamento nelle zone di ricerca e soccorso (Sar) dei due paesi.
Questa tragedia ha innescato nuove polemiche sugli aumenti di sbarchi dalle coste del Nordafrica, cresciute del 226%, secondo i dati dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), passando dai 6.379 migranti sbarcati, rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, ai 20.365 da inizio anno di quest’anno. Eppure la gran parte dei migranti che hanno raggiunto le coste italiane sono arrivati fino a questo momento dalla Tunisia (superano i 12mila) più che dalla Libia (7.030).
Le responsabilità nel business delle migrazioni
Se gli aumenti degli sbarchi dalla Libia hanno riguardato in particolar modo i migranti partiti dalla Cirenaica, questo non giustifica le parole del ministro della difesa, Guido Crosetto, che ha puntato il dito soltanto contro il gruppo Wagner, la cui presenza in Libia sarebbe sotto la lente d’ingrandimento delle autorità Usa. Tutti i miliziani libici, sostenuti dalla Turchia e dal Qatar in Tripolitania, e da Russia, Egitto ed Emirati Arabi in Cirenaica, sono impegnati a fare affari sulle spalle dei migranti, ben prima dello scoppio del conflitto in Ucraìna.
Le tensioni hanno riguardato in queste settimane anche le autorità del governo di unità nazionale uscente, guidato da Abdul Hamid Mohammed Dbeibah. Le divisioni hanno toccato le Forze di sicurezza generali, controllate dal ministro dell’interno, Imad Trabelsi, e gli apparati di prevenzione dell’immigrazione illegale di Mohamed al-Khoja.
Trabelsi aveva annunciato un piano di sicurezza per la difesa dei confini e dei porti, con l’obiettivo di contrastare i traffici illeciti in linea con le richieste dell’Unione europea. L’iniziativa avrebbe potuto ridurre i poteri dell’autorità anti-immigrazione di al-Khoja, che si è detto pronto a usare mezzi militari per difendere le sue prerogative.
Che sul tema delle migrazioni, tutti i protagonisti dell’élite politica libica siano impegnati in un tour de force lo conferma l’incontro tra il ministero degli esteri italiano, Antonio Tajani, e il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, la scorsa settimana al Cairo, in cui si è discusso di rinnovati impegni bilaterali per fermare l’«immigrazione irregolare».
Vacilla il piano Onu
E così, nonostante alcuni segnali favorevoli, il dialogo tra le autorità della Tripolitania e della Cirenaica sembra di nuovo in alto mare. Il piano dell’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Libia, Abdoulaye Bathily, per lo svolgimento delle elezioni entro il 2023, annunciato alcune settimane fa, ha avuto il disco verde del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
Eppure l’endorsement appare molto debole perché in parallelo il Consiglio di sicurezza Onu ha riconosciuto il ruolo dell’Egitto nella mediazione tra le due Camere di Tripoli e Tobruk, pur appoggiando le funzioni di Bathily come «mediatore per promuovere un processo politico in linea con le risoluzioni Onu».
Nel testo Onu si fa riferimento all’«importanza di un processo partecipativo e rappresentativo che includa istituzioni politiche e personalità, leader tribali, organizzazioni della società civile, attori della sicurezza, giovani» contro tutte le «entità che minacciano la pace, la stabilità o la sicurezza della Libia».
Dal canto suo, Bathily aveva puntato tutto sul superamento delle divisioni tra le due Camere che hanno spaccato, tra veti reciproci, il paese in due, con la formazione di un “Alto Comitato”, inclusivo di tutte le fazioni libiche, inclusi i vertici militari di Cirenaica e Tripolitania.
L’indebolimento del piano Bathily potrebbe far slittare la data del voto che sembrava invece concretizzarsi dopo l’approvazione da parte delle due Camere libiche del 13° emendamento della Costituzione provvisoria che stabilisce le procedure per l’elezione di presidente, primo ministro e deputati.
Cosa non va del piano Bathily?
Già dallo scorso gennaio, l’Egitto aveva puntato su un percorso alternativo rispetto a quello voluto dalle Nazioni Unite, già boicottato dal Governo di unità nazionale di Dbeibah e che aveva portato alla cancellazione dell’incontro preparatorio per il voto di Ghadames, inizialmente previsto per lo scorso 11 gennaio.
I due temi più controversi che hanno creato due vie negoziali separate sono il doppio passaporto del nuovo presidente, voluto dalla Camera dei rappresentanti di Tobruk, fortemente favorevole alla candidatura del figlio di Muammar Gheddafi, Seif al-Islam; e gli incarichi militari che per Tripoli non dovrebbero coinvolgere gli attuali vertici militari, mentre per Tobruk, vicina alle posizioni del generale Khalifa Haftar, sarebbe essenziale mettere le mani sul ministero della difesa del futuro esecutivo post-elettorale.
E così il portavoce del ministero degli esteri egiziano, Ahmed Abu Zaid, si era opposto all’iniziativa di Bathily, così come aveva fatto Khaled el-Mishri, presidente del Consiglio supremo di stato, che aveva definito l’iniziativa come «un attacco alla sovranità nazionale». Abu Zaid ha sostenuto che se l’iniziativa di Bathily andasse in porto, aumenterebbero le divisioni e le rivalità. Non solo: per l’Egitto il piano di Bathily violerebbe il ruolo delle istituzioni libiche.
E così, nonostante i passi avanti in vista di un possibile voto entro l’anno, in Libia non si placano le divisioni interne tra il premier uscente Dbeibah, riconosciuto dalla comunità internazionale, e il governo della Cirenaica, guidato da Fathi Bashaga. Dal 2019, Turchia e Russia si spartiscono la Libia in zone di influenza. Se, da una parte, il Cairo ha sempre appoggiato il generale Haftar e le istituzioni di Tobruk in Cirenaica – insieme ad Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Russia con i contractors del gruppo Wagner, milizie 106, 201 e 604 –, e il premier in pectore Bashagha, che ha faticato non poco a prendere le redini del potere; dall’altra, la Turchia con il Qatar, i mercenari siriani e turcomanni si sono schierati con le autorità di Tripoli. Le milizie di Misurata, prima al fianco del governo di unità nazionale di Fayez al-Serraj, sono pure loro al fianco del premier Dbeibah.
Nel frattempo sui cieli della Tripolitania è già in corso il conflitto: droni cinesi Wing Loong, controllati dagli Eau, sono contrastati dagli aerei turchi senza pilota Bayraktar.