È da tempo che il saldo migratorio ha smesso di crescere vertiginosamente in Italia, nonostante quello che alcune vulgate politiche e mediatiche vanno diffondendo. I primi dati di un cambio di rotta si segnalavano già all’indomani della crisi economica del 2008. Fino allo scorso anno comunque, il saldo tra chi entrava e usciva dal nostro paese aveva continuato a mantenersi positivo.
Ma, dopo quasi un ventennio, stando all’ultimo bilancio demografico diffuso dall’Istat il 26 marzo scorso, l’Italia segna una contrazione, che porta quasi a un pareggio tra le migrazioni in ingresso e quelle in uscita. Ad analizzare e spiegare il cambiamento è l’Istituto di studi e ricerche Carlo Cattaneo, con la pubblicazione di un report dal titolo 2020: anno di svolta per l’immigrazione italiana? Dall’espansione alla contrazione: cause e prospettive, curato da Asher Colombo e Gianpiero Dalla Zuanna.
Una contrazione non nuova
Il 2020 ha di certo subìto il peso della pandemia, delle limitazioni agli spostamenti, della contrattura economica con conseguenti perdite di occupazione ma, avvertono i due esperti, allargando lo sguardo verso l’ultimo decennio del 2000, l’aumento della contrazione dell’emigrazione in entrata è solo la conferma peggiorativa di un orientamento che era già in atto da tempo. Non una vera e propria controtendenza.
Grafici alla mano, la positività del saldo migratorio in Italia inizia a registrarsi già dal 1972, con alcune variazioni negative negli anni ‘80, che comunque non mettono in discussione quel che per decenni rimane un dato di fatto: gli ingressi dall’estero hanno sempre superato le uscite dal paese. Registrando un record nel 2007, con un picco di iscrizioni all’anagrafe da parte di cittadini e cittadine che arrivavano dall’estero e che superavano le cancellazioni di quasi mezzo milione di unità.
Il trend positivo si conferma però fino al 2020, fino quando l’Italia non registra un crollo, che riporta il paese ai numeri della fine del secolo scorso. Ogni anno, stando ai dati riportati dallo studio, in media, gli ingressi dall’estero hanno superato le uscite a un ritmo di 200mila unità all’anno (nel periodo di picco tra il 2000/2009 si sono raggiunte punte di 250mila), ma è lo scorso anno che il saldo registra una differenza significativa che, tra ingressi e uscite, si assesta a poco meno di 80mila abitanti.
Una contrazione, che certo risente della pandemia e della mancanza degli ingressi dall’estero. Situazione condivisa con altre realtà europee e sottolineata da Colombo e Dalla Zuanna che, dati Ocse (Osservatorio per la cooperazione e sviluppo economico) alla mano, mettono in evidenza come, in diversi paesi europei, vi sia stata una contrazione del 46% dei permessi rilasciati a cittadini e cittadine straniere, rispetto ai numeri del 2019.
Una diminuzione riferita a varie forme di manodopera che sono venute a mancare per i restringimenti della mobilità tra i paesi (in Italia una mancanza importante ha riguardato i braccianti stagionali) e che ha assottigliato anche la presenza studentesca straniera.
Differenze tra nord e sud
Focalizzando meglio l’attenzione sullo Stivale, gli esperti dell’Istituto Cattaneo distinguono due dinamiche differenti nell’andamento del saldo migratorio, che tengono conto sia dei movimenti migratori interni (i trasferimenti di residenza tra comuni italiani), sia di quelli con l’estero (da e per l’estero), sia dei movimenti complessivi, cioè la sommatoria delle due voci.
Al centro-nord il trend è sempre rimasto positivo, con variazioni percentuali che hanno risentito per lo più del calo delle migrazioni con l’estero, ma mai delle migrazioni interne, che sono rimaste sempre consistenti. La differenza nel tempo è data dal fatto che inizialmente la carenza di manodopera veniva coperta dal sud e dalle isole mentre, nel nuovo millennio, quei settori di mercato poco qualificati, remunerati e faticosi, hanno trovato una risposta occupazionale dalla manodopera migrante, proveniente dall’estero.
Le regioni del Mezzogiorno presentano invece tutt’altra situazione, registrando un tasso migratorio positivo solo nel quinquennio dal 2007 al 2011 e mai con valori paragonabili al nord-centro Italia. La positività è sempre stata frutto di ingressi dall’estero e non di migrazioni interne, che dal 1995 in poi hanno sempre segnato un andamento negativo.
Migrazioni strutturali
Nessuna delle dinamiche migratorie, sia interne che estere, raccontate dal report si può leggere senza però tener conto dei cambiamenti strutturali che hanno a che fare con i fattori demografici ed economici che hanno segnato il nostro paese.
Il movimento migratorio registrato in Italia risponde sempre a una carenza di forza lavoro, che cresce passando dal Meridione al Centro/Settentrione, dalla manodopera più qualificata a quella meno qualificata. Se si vanno a guardare i settori dove questa carenza è maggiore (il terziario, la cura, l’accudimento), si vedrà che la risposta occupazionale arriva prevalentemente dalle migrazioni interne, dal sud verso nord, ed estere.
E così sarà in futuro. Colombo e Dalla Zuanna si spingono oltre l’oggi, proiettandosi verso un futuro prossimo, datato 2036, e mettendo in piedi una previsione funesta. La contrazione della richiesta di lavoro, segnata dal fatto che i turnover diminuiranno per una questione demografica, e l’aumento (la pandemia lo ha reso fattibile ed evidente) dello smart working e dell’istruzione a distanza, ridurranno sempre più la mobilità in generale.
La carenza di manodopera sarà così non solo superiore a quella attuale, ma estesa a quei settori che oggi sono una realtà di forte domanda. Riguarderà non solo il nord del paese ma anche il Mezzogiorno e non solo la manodopera non qualificata, ma anche i diplomati e laureati. Tutto questo metterà in luce, soprattutto se l’economia ripartirà, come gli ingressi dall’estero sono e saranno sempre più essenziali per il rinnovo della forza lavoro del nostro paese.