Il ministero delle miniere e dello sviluppo minerario ha vietato tutte le esportazioni di litio dal paese. Una decisione drastica, primo intervento di un piano del governo che si propone di rivoluzionare il mercato interno. Un progetto che, se avrà successo, segnerà un cambiamento epocale per l’economia del paese.
L’esecutivo si propone infatti di avviare la propria industria di trasformazione del minerale, che attualmente viene invece esportato grezzo, a vantaggio di società straniere, in prevalenza cinesi, che dominano la produzione internazionale di batterie. Con perdite stimate dal ministero attorno a 1,7 miliardi di euro per le casse dello stato, a causa del contrabbando in Sudafrica e negli Emirati Arabi Uniti.
Il divieto di esportazione riguarda dunque anche i minatori artigianali che lo estraggono più o meno illegalmente e lo trasferiscono oltreconfine.
Il litio è un componente delle batterie elettroniche, tanto prezioso che è noto anche come “oro bianco”. Il suo prezzo negli ultimi due anni è cresciuto del 1.100%. Una risorsa gigantesca per lo Zimbabwe, terzo produttore africano e paese con le più grandi riserve di minerale del continente, sufficienti, secondo il governo, a soddisfare un quinto del fabbisogno mondiale.
Per decenni Harare, così come molti altri stati africani ricchi di minerali, ha permesso che le sue risorse fossero estratte dalle multinazionali, senza sviluppare industrie locali che potessero lavorarle e creare posti di lavoro.
Nell’Africa meridionale c’è anche un altro paese che tenta di svincolarsi dallo sfruttamento selvaggio delle sue risorse. La Namibia ha infatti interrotto le operazioni di esplorazione dell’uranio affidate dal 2019 a One Uranium, sussidiaria dell’agenzia statale russa per l’energia atomica Rosatom, dicendosi preoccupata per la potenziale contaminazione delle acque sotterranee.
La Namibia è il più grande produttore africano del combustibile nucleare, il secondo al mondo.
Nelle scorse settimane il ministero dell’agricoltura, dell’acqua e della riforma fondiaria ha rifiutato di concedere a One Uranium il permesso per l’uso dell’acqua necessaria per l’estrazione mineraria, affermando che la società non è riuscita a dimostrare che il suo metodo di estrazione dell’uranio non causa inquinamento.