Lo scorso 10 giugno, il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato il ritiro graduale dell’operazione antiterrorismo Barkhane, condotta da Parigi nella parte occidentale del Sahel per fornire assistenza e supporto alle forze armate del Mali in stretto coordinamento con i paesi del G5 Sahel (Ciad, Niger, Mali, Burkina Faso e Mauritania) e con la missione multidimensionale integrata delle Nazioni Unite in Mali (Minusma).
Un mese dopo l’annuncio, in occasione del vertice del G5 Sahel, il capo dell’Eliseo ha ufficializzato il ritiro della missione, chiarendo i contorni del disimpegno dei soldati d’oltralpe dalla regione semi-arida al confine meridionale del deserto del Sahara.
Macron ha spiegato che tra la fine del 2021 e l’inizio del 2022 chiuderanno le basi di Kidal, Tessalit e Timbuctu, nel nord del Mali. Mentre il contingente francese, che ora conta 5.100 uomini dispiegati tra Mali, Niger e Ciad, dovrebbe essere ridotto del 40%, diminuendo l’impegno della Francia a 2.500, massimo 3mila unità. Questi effettivi verranno concentrati nella cosiddetta zona dei tre confini (Mali, Niger e Burkina Faso) per cercare di fermare l’espansione dei gruppi jihadisti verso il golfo di Guinea.
Dietro la decisione di Macron c’è sicuramente il fatto che, dopo 8 anni di attività e 55 vittime francesi, Parigi si è stancata di interpretare in assolo il ruolo di gendarme nel Sahel. Sulla scelta del presidente francese hanno pesato anche i due recenti colpi di stato in Mali, nonostante tutti gli sforzi fatti dalla Barkhane per stabilizzare il paese africano.
Oltre alla morte improvvisa, ad aprile, di uno dei più saldi alleati della Francia: il presidente del Ciad Idriss Déby Itno, ferito a morte – è la versione ufficiale – mentre guidava un’operazione militare nel nord del paese contro la coalizione ribelle del Fronte per l’alternanza e la concordia del Ciad (Fact).
Numeri e accadimenti che portano alla conclusione che il singolo impegno della Francia non è stato sufficiente per garantire il controllo di un territorio molto ampio, nemmeno con un contingente così rilevante di uomini. Come confermato dal capo di stato maggiore dell’esercito francese, il generale François Lecointre, secondo cui «il terrorismo islamico continua a diffondersi, a stabilire basi locali, a raggiungere una popolazione più ampia, mentre le perdite subite dall’esercito e le uccisioni di civili dovute agli attacchi jihadisti rimangono a un livello ancora troppo elevato».
Tuttavia, Macron è perfettamente conscio che non potrà ritirarsi completamente dalla regione, la cui instabilità estrema potrebbe contaminare altri paesi africani, come dimostrano i recenti attacchi in Costa d’Avorio, dove Parigi ha ripristinato un suo contingente della legione straniera.
Per questo, se da un lato le truppe dell’operazione Barkhane entro il 2023 verranno ridotte della metà, i commando francesi della Task Force Sabre, i 500 uomini delle forze speciali operativi nella regione che nel giugno 2020 hanno eliminato l’emiro di al-Qaeda nel Magreb islamico (Aqmi), Abdelmalek Droukdel, continueranno a dare la caccia ai terroristi.
Inoltre, la Francia continuerà a guidare il nuovo contingente interforze europeo Takuba (in lingua tuareg “spada”) che dopo l’investitura ufficiale nel gennaio del 2020, in occasione del vertice G5 Sahel di Pau, dallo scorso 2 aprile è diventato operativo.
Importante ricordare, che Takuba sta operando in coordinamento con altri attori internazionali, in particolare la Minusma, e l’Africom, il comando delle forze armate statunitensi per il continente africano. Quest’ultimo, che adesso sta fornendo solo supporto logistico e di intelligence, potrebbe dare un apporto importante all’operazione antiterrorismo nel Sahel, dopo che gli Stati Uniti del presidente Joe Biden hanno assunto una posizione più interventista.
La nuova task force sembra dunque lo strumento ideato da Macron per coinvolgere l’Europa nel Sahel, dove nonostante l’importante impiego di mezzi e il sacrificio in termini di vite umane, le forze francesi non sono riuscite a mantenere la stabilità del territorio. Tuttavia, nonostante si fossero inizialmente dichiarati favorevoli all’iniziativa d’oltralpe, non tutti gli undici Stati europei firmatari della dichiarazione di adesione hanno inviato unità operative sul terreno, mentre uno di essi, la Germania, ha rifiutato ben due volte la richiesta francese.
Alla missione europea interforze ha aderito anche l’Italia, che inizialmente non figurava tra gli 11 paesi firmatari della dichiarazione di sostegno. La partecipazione dei nostri soldati alla Takuba – 200 unità, 20 mezzi terrestri e 8 mezzi aerei – è stata decisa in occasione del vertice bilaterale con la Francia, tenutosi a Napoli il 27 febbraio 2020, durante il quale, a seguito di una richiesta esplicita da parte di Macron, l’Italia ha annunciato la sua adesione.
La Takuba rappresenta un impegno piuttosto gravoso per i paesi coinvolti, dato che riguarda le forze speciali dei rispettivi eserciti e prevede anche il loro coinvolgimento nelle operazioni militari sul campo. Macron quindi si troverà nella scomoda posizione di dover convincere gli alleati europei a proseguire e magari rafforzare la task force Takuba, mentre sta smobilitando l’operazione Barkhane.
Allo stesso tempo, dovrà persuadere della bontà delle sue decisioni anche i paesi del G5 Sahel, compresi i nuovi leader in Mali e Ciad, ai quali sta chiedendo di riformare il proprio stato e cedere il potere a un governo civile e democratico. Richieste difficili da veicolare mentre la Francia sta preparando il suo ritiro dall’area.