Un rapporto molto atteso. Ma che avrà tuttavia un effetto assai limitato sulle relazioni tra Parigi e Kigali. Perché? Essenzialmente perché si rivolge all’opinione pubblica francese e, in quanto statutariamente limitato al 1994, non dice una parola sulle conseguenze della guerra, del genocidio e del e regime che ne è risultato. Si tratta di un rapporto franco-francese e, aldilà del ruolo della Francia, non riguarda che marginalmente il Rwanda.
Certo c’è l’opinione del relatore Vincent Duclert che ritiene auspicabile che il presidente Macron (all’epoca aveva 17 anni) presenti scuse ufficiali, a nome della Francia, al popolo e allo stato rwandese. Scuse che sono state fatte, con parsimonia, da alcuni attori: dalle Nazioni Unite, dai vescovi rwandesi (ma non dal Vaticano), da Bill Clinton nel 1998 (ma non dal governo americano).
Il Rapport Duclert non fornisce le ragioni delle scuse, a meno che non siano l’ignoranza e l’incompetenza a costituirne la base. È comunque un progresso rispetto al Rapporto Quilès del dicembre 1998 che puntava soprattutto a scagionare la Francia dalle accuse, peraltro esagerate, mosse dall’organizzazione non governativa Survie e da alcuni giornalisti come Patrick de Saint-Exupéry.
L’apertura nel 1998 di un’inchiesta giudiziaria francese sull’attentato contro il presidente rwandese Habyarimana (6 aprile 1994) si fondava fin dall’inizio sull’ipotesi che fosse un’azione ordinata dal Fronte patriottico rwandese (Fpr), il partito dell’attuale presidente Paul Kagame.
Dopo un percorso denso di inversioni di rotta e di peripezie, fino a giungere alla rottura dei rapporti diplomatici tra i due paesi, la procedura si concluse nel 2020 con il non luogo a procedere. Su questo aspetto fondamentale, il Rapporto Duclert non porta nessuna precisazione. Ma evidenzia cose terribili che hanno a che fare con la situazione reale, non quella che voleva costruire il punto di vista di Parigi.
Allarmi ignorati
Così, quando il generale Varret (che diventerà il capo operativo del Corpo di spedizione francese in Rwanda) si reca a Kigali il 13 dicembre 1990, la guerra era iniziata solo sei settimane prima, e incontra il capo della gendarmeria rwandese, il colonnello Rwagafilita, quest’ultimo gli dice: «Abbiamo intenzione di liquidare tutti i tutsi sul territorio rwandese; non sono molti, si farà presto». Varret, sotto shock, si rivolge al presidente Habyarimana che gli risponde: «Le ha detto questo? Lo licenzio» (ma non lo farà).
Il generale riferisce l’accaduto ai suoi superiori gerarchici. Ma non se ne tiene conto e passeranno alcuni anni perché la previsione si realizzi… Durante tutto questo tempo, Varret e qualche altro – l’addetto militare a Kigali, colonnello Galinié, io stesso e Guy Labertis all’interno del Partito socialista e attraverso la Cellula Africa dell’Eliseo, diretta da allora da Guy Penne – tentarono di far comprendere che la corsa alla catastrofe era cominciata. Varret fu progressivamente messo da parte e nel 1993 rimpiazzato dal colonnello Huchon, propenso alle maniere forti.
Personalmente, ho lanciato il mio ultimo avvertimento a metà febbraio del 1994 nell’ufficio di Bruno Delaye, che era succeduto a Guy Penne alla Cellula Africa. Tornavo da Kigali e gli dissi che eravamo vicini all’apocalisse. Le mie parole non gli piacquero, lasciai l’ufficio in conflitto totale e rassegnai le dimissioni dal Partito socialista. Sei settimane dopo, si scatenò l’apocalisse annunciata.
A Delaye dissi: «Ci saranno centomila morti». E mi pareva di aver un po’ esagerato. Ciò che sto raccontando – e che non è mai stato scritto e che non figura nel Rapporto Duclert – è ciò che il generale Patrice Sartre chiama «le parti molli – gli scambi verbali, le connivenze, le dichiarazioni dimenticate nei processi verbali, i documenti distrutti, volontariamente o meno – che mancano per avere una immagine fedele del passato».
Il genocidio è solo uno?
Ci sono state molte “parti molli” nell’affaire rwandese e molta di questa storia non documentata – almeno negli archivi francesi – manca nel rapporto Duclert (senza nemmeno voler rimproverare agli autori di non essere mai stati in Rwanda). Niente sulla morte di Fred Rwigyema, il primo capo dell’Fpr, niente sui meccanismi interni all’Fpr e sulle strutture dittatoriali di cui è portatore.
E la stampa francese (Le monde, 30 marzo 2021) si felicita che «il Rapporto Duclert interviene in un contesto di riscaldamento diplomatico tra i due paesi (…). È una nuova mano tesa dal presidente Macron dopo il suo sostegno all’elezione di Luoise Mushikiwabo alla testa dell’Organizzazione internazionale della francofonia.
La normalizzazione delle relazioni non era legata alla pubblicazione del rapporto, ma certo il rapporto va a sostenere questo processo: la commissione ha parole dure nei confronti dei governi francesi dell’epoca».
È una situazione paradossale. Macron si trova nella stessa posizione di Mitterrand nel 1990: il sostegno compiacente a una “dittatura efficace” (ieri Habyarimana, oggi Kagame) che non ha tra i suoi punti forti il rispetto dei diritti umani. Non c’è mai stato un secondo genocidio, come suggeriscono il giornalista Pierr Péan e molti militari francesi.
E invece, dopo aver invaso nel 1996 l’allora Zaire (oggi Rd Congo), il presidente Kagame ha fatto più morti dei genocidari hutu. Però attenzione: non è stato un genocidio perché la maggior parte dei morti era congolese non rwandese, i francesi non ne hanno quasi avuto a che fare e non ci sarà mai un rapporto francese su questo…
Ma c’è stato un rapporto Onu sulle violenze nella regione, il Mapping Report 1993-2003, pubblicato nel giugno del 2020 a New York. 721 pagine: è assai folto, non ben scritto e difficile da leggere; soprattutto dice cose cattive sul presidente Paul Kagame, il beniamino dei donatori che sostengono il Rwanda. E ciò è imperdonabile. Dunque, come i francesi nel 1990, gli americani, gli svedesi, gli olandesi e altri benefattori dell’umanità hanno scelto i loro cadaveri preferiti.
Il clima diplomatico franco-rwandese si va riscaldando. E ciò non è una cattiva cosa per il presidente Kagame perché cominciano ad esserci dei ricercatori che guardano più da vicino «l’uomo che ha posto fine al genocidio». La sua posizione è meno confortevole di quella in cui si trovava qualche anno fa. Comincia anche lui ad avere un profilo inquietante, come un qualsiasi generale francese.