Una vita durissima, a raccogliere fragole. Di notte, con una piccola torcia appesa alla fronte. Con un freddo gelido che entra nelle ossa, ma con il buio in quella serra si dà meno nell’occhio. Di notte è difficile vengano a controllare. E si sta certo meglio di quell’altro posto dalle mura alte tre metri che finivano con fili spinati. Dove si raccolgono sempre fragole, ma dove è come stare in un doppio carcere.
Un carcere dove spruzzavano fitofarmaci che ti riducono gli occhi in sangue. Sangue e sacrifici si ripetono nelle storie di queste donne spesso costrette a lasciare i propri figli e figlie nel paese d’origine, per poi sentirli chiamare dai media “orfani bianchi”.
Eppure orfani non sono, e quella parola bianchi serve solo per sottolineare l’esser nati da schiave non nere, che lavorano nelle nostre campagne o case. Schiave, che quando riescono a portarli qua o a partorirli qua, i loro figli neanche li vedono. Tanti sono i sacrifici che le tengono fuori di casa.
Donne che non hanno il tempo per controllare la salute e spesso, vivendo tra pesticidi, si trovano noduli ai seni. Donne che quando possono tornano per un abbraccio a figliolanze che covano un odio che si alimenta d’assenza. E se non è odio, è uno strappo che rimane e non si rimargina mai. Strappo che per alcune donne diventa malattia, sindrome Italia la chiamano.
Una sindrome che a Iasi, in Romania, è su varie cartelle dell’ospedale psichiatrico. Oltre 70 le testimonianze, in un reportage al femminile che racconta sfruttamento, caporalato e assenza di stato.