Le autorità maliane hanno revocato «tutte le misure restrittive» imposte all’ex presidente Bah N’Daw e al primo ministro di transizione Moctar Ouane, destituiti dai militari in occasione del colpo di stato del 24 maggio. Da allora erano stati tenuti agli arresti domiciliari
Lo ha annunciato venerdì scorso, in un comunicato, il Comitato di monitoraggio locale per la transizione (Clst) in Mali, l’organismo della Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (Cedeao) incaricato di monitorare sulla transizione nel paese.
Il Comitato, istituito per seguire la transizione aperta dopo un primo colpo di stato militare nell’agosto 2020, «accoglie con favore la decisione del governo di revocare tutte le misure restrittive riguardanti Bah N’Daw e Moctar Ouane» si legge in un comunicato.
I due uomini erano stati arrestati il 24 maggio in un secondo colpo di stato guidato dal colonnello Assimi Goïta e dai soldati che avevano realizzato un primo golpe il 18 agosto 2020. Bah N’Daw e Moctar Ouane – che avevano appena concordato un nuovo esecutivo di cui non facevano parte alcune figure militari ritenute invece decisive dai golpisti – erano poi stati trasferiti nella base militare di Kati, situata a 15 chilometri dalla capitale Bamako.
Anche il governo maliano, confermando le informazioni della liberazione, ha detto di aver «accolto con favore la missione di mediazione» del Comitato di monitoraggio della transizione. E «si compiace del buon esito delle iniziative intraprese dalla suddetta commissione».
Rispetto degli impegni
Tuttavia, l’esecutivo «sottolinea la necessità di rispettare gli impegni assunti dagli attori interessati per dimostrare spirito di responsabilità, attaccamento all’interesse nazionale, rispetto della legge e astenersi da qualsiasi azione che possa incidere sul buon andamento della transizione», si legge nel loro comunicato stampa. Come dire: vi abbiamo liberato, ma ora ci dovete essere fedeli.
Dalla defenestrazione di Ouane e Bah N’Daw, il colonnello Assimi Goïta è stato investito delle funzioni di presidente di transizione e ha poi nominato un nuovo primo ministro.
Le due figure liberate non si sono ancora espresse pubblicamente dagli eventi di maggio. Le autorità hanno comunque chiesto che sia loro fornita protezione.
Secondo l’avvocato Mamadou Ismaïla Konaté, difensore di Ouane e Bah N’Daw, i suoi assistiti avevano adito la Corte di giustizia della Cedeao e quest’ultima aveva dato tempo fino a sabato 28 agosto al governo del Mali per giustificare la loro detenzione.
La loro liberazione avviene nel mezzo della più grande fase di incertezza che sta vivendo il paese e su quale sarà il suo futuro, coinvolto da movimenti indipendentisti e dalla violenza jihadista dal 2012.
Quando le elezioni?
Insicurezza che continua a diffondersi nonostante la presenza di forze francesi, delle Nazioni unite e straniere: la crisi sociale persiste e il progresso politico è lento a un anno dal primo golpe del 2020.
I militari si sono impegnati a lasciare il posto ai civili dopo le elezioni previste per il febbraio 2022. A sei mesi dalla scadenza, cresce lo scetticismo sul rispetto di questo impegno e si levano voci per un prolungamento della transizione.
In questo contesto, l’arresto di giovedì scorso di un peso massimo della politica locale come Soumeylou Boubèye Maïga, primo ministro dal 2017 al 2019, sta ingarbugliando ancora di più il quadro, dividendo i fronti tra chi ha accolto con favore il suo arresto in nome della lotta alla corruzione e all’impunità, e chi, invece, teme una manovra per vanificare le sue ambizioni presidenziali.
È stato arrestato per presunta corruzione nell’ambito dell’acquisto di un aereo presidenziale risalente a sette anni fa.
Aumentati gli attacchi armati
E non rasserena il clima sapere che gli attacchi armati in Mali sono aumentati del 25% nel solo secondo trimestre di quest’anno. È quanto denunciato dalla Missione dell’Unione africana in Mali (Minusma) nel suo ultimo rapporto trimestrale. Secondo il report nel periodo considerato almeno 527 civili sono stati uccisi, feriti, rapiti o dispersi. Le aree del Mali centrale sono quelle più colpite dalle violenze: Douentza, Djenne, Bandiagara, Niono, Mopti, Segou e Koro.
La missione rileva anche un «preoccupante aumento degli incidenti legati all’estremismo violento in diverse regioni del sud del Mali, come Koutiala e Sikasso, e lungo il confine con il Burkina Faso». I gruppi terroristici jihadisti – il Gruppo di supporto per l’islam e i musulmani (Jnim) legato ad al-Qaida e lo Stato islamico nel Grande Sahara (Isgs) – sono responsabili della stragrande maggioranza degli atti violenti, ovvero 287 casi. Ma gli investigatori dell’Onu denunciano anche i gruppi di autodifesa della comunità, il più delle volte formati attorno ai tradizionali cacciatori dozo, con 157 casi. Anche qui si parla di omicidi ma anche di rapimenti a scopo di riscatto. Sei casi sono attribuiti anche a gruppi armati firmatari dell’accordo di pace.
Sul modus operandi dei gruppi terroristici jihadisti, oltre agli omicidi, alla posa di ordigni esplosivi improvvisati, o ai rapimenti, Minusma punta ad attentati contro scuole, con incendi di apparecchiature e minacce fatte contro gli insegnanti e contro le famiglie dei bambini allievi.
Nel rapporto vengono accusate anche le forze di sicurezza: in primis i militari del Mali, con 46 casi (ovvero il 9% di atti di violenza contro i civili nel paese), ma anche i militari regionali e internazionali – vale a dire Operazione Barkhane, caschi blu e forza G5 Sahel – con 31 casi, ovvero il 6% delle violenze osservate. Il rapporto rileva infine che nelle aree dove sono stati firmati accordi locali di non aggressione con gruppi jihadisti le popolazioni hanno logicamente subito meno violenze, ma che hanno d’altro canto dovuto rinunciare a un gran numero delle loro libertà fondamentali, soprattutto donne e ragazze, costrette a portare il velo sotto la minaccia di essere frustate, e a cui è vietato partecipare a qualsiasi programma informativo. Gli abitanti sono anche soggetti a tasse sul bestiame, sulle imprese o sui raccolti. (Giba)