I numeri sul «carico residuale» degli “sbarchi selettivi” continuano ad aggiornarsi mentre il comandante della Humanity 1 decide di ricorrere al Tar del Lazio, dopo essersi rifiutato di eseguire l’ordine di lasciare, con la propria nave, le acque territoriali italiane con ancora a bordo i naufraghi non selezionati per lo sbarco.
Intanto l’Asgi, Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione – che aggiunge la propria firma agli appelli che chiedono il porto sicuro per tutte le persone migranti presenti sulle navi delle ong -, ha messo in fila le norme per cui la decisione governativa di impedire lo sbarco è illegittima.
Secondo l’associazione, la decisione dei ministeri dell’interno, dei trasporti e della difesa, di far sbarcare alcuni migranti e respingere, arbitrariamente, altri, configura per lo stato italiano una forma di respingimento collettivo, per cui l’Italia è già stata condannata in passato. Nel 2012 infatti, la Grande Camera della Corte europea dei diritti umani, con una sentenza decisa all’unanimità il 23 febbraio, aveva reputato l’Italia colpevole per il respingimento di un considerevole numero di profughi africani (200) provenienti dalla Libia tra il 6 e il 7 maggio 2009.
A sanzionare i respingimenti collettivi è infatti il protocollo 4 della Cedu, la Convezione europea dei diritti dell’uomo, che nel suo articolo 4, dal titolo Divieto di espulsioni collettive di stranieri, recita semplicemente e seccamente: “le espulsioni collettive di stranieri sono vietate”.
Il fatto che questo divieto venga poi deciso invocando un generico pericolo sicurezza per l’Italia, non legittima la posizione governativa in quanto, secondo una sentenza della Corte di cassazione del 20 febbraio del 2020, la n. 6626, che riguardava il provvedimento contro la comandante Carola Rackete, l’operazione di soccorso si ritiene conclusa esclusivamente con lo sbarco in un porto sicuro.
Non a caso la sentenza si rifà alla convenzione internazionale SAR che, nel punto 3.1.9 dispone: «Le parti devono assicurare il coordinamento e la cooperazione necessari affinché i capitani delle navi che prestano assistenza imbarcando persone in pericolo in mare siano dispensati dai loro obblighi e si discostino il meno possibile dalla rotta prevista, senza che il fatto di dispensarli da tali obblighi comprometta ulteriormente la salvaguardia della vita umana in mare».
E prosegue: «La Parte responsabile della zona di ricerca e salvataggio in cui viene prestata assistenza si assume in primo luogo la responsabilità di vigilare affinché siano assicurati il coordinamento e la cooperazione suddetti, affinché i sopravvissuti cui è stato prestato soccorso vengano sbarcati dalla nave che li ha raccolti e condotti in luogo sicuro, tenuto conto della situazione particolare e delle direttive elaborate dall’Organizzazione (marittima internazionale). In questi casi, le Parti interessate devono adottare le disposizioni necessarie affinché lo sbarco in questione abbia luogo nel più breve tempo ragionevolmente possibile».
Passaggio che condanna non solo le autorità italiane che vengono meno alla conclusione di un salvataggio, avendo deciso chi può sbarcare e chi no tra le persone salvate, ma anche i comandanti stessi e i loro armatori se dovessero decidere di rispettare un ordine, quello del governo del nostro paese, che è di per sé contrario alle leggi internazionali.
Lo “sbarco selettivo” che in maniera arbitraria determina chi è fragile e chi no contrasta con i principi sanciti dalla Convenzione di Ginevra sulle persone rifugiate, soprattutto con l’articolo 33 che recita (dal 1951): «Nessuno Stato contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche».