Sono numeri in continuo aumento quelli di chi emigra o scappa. E, di conseguenza, quelli di chi non ce la fa a sopravvivere. Proprio come racconta nel film documentario Io capitano, il regista Matteo Garrone. Prendendo per mano lo spettatore, il regista lo accompagna nel viaggio che porta i due giovani protagonisti, Seydou e Moussa, da Dakar in Europa. Dove cala il sipario.
Il film di Garrone finisce infatti sulle coste della Sicilia. Un finale che ci permette, quasi, di tirare un sospiro di sollievo. Dopo le umiliazioni subite nel deserto, le torture vissute all’interno dei centri di detenzione in Libia e le difficoltà che hanno accompagnato la traversata nel mar Mediterraneo, l’arrivo dei due ragazzi appare ai nostri occhi come una conquista, un successo. “Ce l’hanno fatta”, pensiamo.
Un finale meno scioccante di quanto non ci potessimo aspettare. Ma possono dire lo stesso i due ragazzi protagonisti? Che cosa ne è stato degli 15.005 Seydou e Moussa – tecnicamente “minori stranieri non accompagnati” – che si stima siano approdati in Italia da inizio anno fino al 23 di ottobre?
Stando alla legge, spetta alle istituzioni farsene carico e riconoscere loro una serie di diritti. Sembra essersene accorto anche il governo, aumentando i fondi destinati all’accoglienza dei minori non accompagnati: 200 milioni nel 2024, 300 nel 2025.
Ma nel frattempo, e nella realtà dei fatti, le cose sono molto complicate. E comunque lontano, molto lontano da un lieto fine. Fortunatamente le eccezioni esistono e una di queste è rappresentata dalla realtà di don Giusto. Nigrizia è andata a trovarli nell’oratorio di Rebbio.
La voce dei ragazzi accolti
Rebbio è un quartiere a sud della città di Como. Un quartiere piuttosto anonimo se non fosse che il suo parroco, don Giusto Della Valle, ospita nella propria parrocchia 45 minorenni di nazionalità egiziana.
I flussi migratori non sono una novità per la città di Como. Tantomeno il tema dei minori stranieri non accompagnati. Al contrario, la città è da anni interessata dalle migrazioni. Complice la sua vicinanza al confine con la Svizzera. Ma quando si sono presentati alle porte della città decine di minori non accompagnati, le istituzioni si sono trovate completamente impreparate.
Il problema era lo stesso di oggi: i centri d’accoglienza per i minorenni erano saturi. In città, nelle vicine province e nella regione. La situazione era la medesima. Non vi erano posti letto da offrire.
I giovani, però, erano lì. E far finta di non vederli, non faceva sì che questi sparissero. È così che don Giusto ha aperto le porte della parrocchia. Oratorio, casa parrocchiale e qualsiasi altra sala disponibile è stata adibita per assicurare a questi ragazzi un rifugio, cibo, consigli legali e non solo.
«La sfida più grande è quella di seguire questi ragazzi – racconta un operatore -. Non tanto per mangiare e dormire, quanto piuttosto per trovare loro delle soluzioni; siano esse la scuola o una qualsiasi altra forma di istruzione, sport o laboratori. Non possiamo lasciarli soli».
Emblematico a questo riguardo è l’arrivo a Rebbio di G., 17 anni, scappato dalla comunità per minori nella quale era stato collocato: «Mangiavamo e dormivamo. Fine. Niente corsi per imparare la lingua italiana. Niente attività. Niente prospettive lavorative. Cosa rimanevo lì a fare?».
Spazi come l’oratorio di Rebbio sono speciali perché non si limitano a fornire un rifugio a questi giovani, bensì cercano di rispondere ai loro bisogni più profondi.
I ragazzi mostrano alcune fotografie, scattate di recente, dai loro smartphone. Li ritraggono completamente ricoperti di pittura. Gambe, braccia e volti, nascosti dietro i tanti colori.
Workshop, ma anche lezioni di italiano e laboratori di teatro, tenuti da una psicologa e assistiti da una mediatrice che parla la loro lingua.
Emerge come le storie più raccontate durante queste attività siano quelle dei loro viaggi. La percezione è che i ragazzi sentano un bisogno quasi impellente di condividere come sono riusciti a raggiungere l’Europa.
I video dei viaggi
«In Libia ho aspettato 9 mesi prima di essere imbarcato. Eravamo in tanti. Tutti ammassati in questa casa. […] Aspettavamo e basta. I libici sono matti. Non puoi permetterti di dire nulla né tantomeno di fare quello che ti pare», mi dice J. che conclude il racconto portandosi il pollice al collo e mimando il taglio della gola.
I non ha bisogno di mimare e, raccontandomi della sua traversata del Mediterraneo, durata più di 7 giorni, mi allunga il telefono. «Vedi. Viaggiavamo di pari passo con un’altra barca. Finché questa non si è bloccata. Sulla mia c’erano circa 400 persone. Sull’altra 350. L’abbiamo dovuto trainare fino a riva. Te lo immagini? Guarda!».
Il ragazzo aveva documentato una parte del suo viaggio con lo smartphone. Non è il solo ad averlo fatto. Un altro giovane mostra alcuni video, nel suo caso, pubblicati su TikTok. La distesa di persone a bordo della barca, poi il primo piano: lui con altri due ragazzi sorridevano e salutavano. Il diciassettenne racconta di aver pubblicato in modo che la famiglia potesse vedere dove fosse e che stava bene.
Molti ragazzi hanno viaggiato soli. E i traumi, più o meno importanti che hanno vissuto, sono spesso l’unica cosa che si sono portati in Italia, assieme al fardello di responsabilità nei confronti delle proprie famiglie rimaste indietro.
Al pari dei due protagonisti del film Io capitano, i giovani egiziani che decidono di intraprendere il viaggio non scappano da guerre né tantomeno da conflitti. Scappano dalla povertà.
«È forse un reato desiderare una vita migliore? Sembra che don Giusto sia uno dei pochi a capire questa cosa», afferma M. che, grazie al supporto ricevuto, è riuscito a trovare un’occupazione. Parrucchiere in Egitto, è adesso assunto come barbiere in centro città e mostra con orgoglio i tagli da lui effettuati, rigorosamente fotografati, uno ad uno.
«Io sono stato fortunato. Ma so che, anche se non avessi trovato lavoro fin da subito, qui non sarei stato lasciato solo», afferma il giovane, spiegandomi che i ragazzi i più grandi vengono comunque presi in carico da Don Giusto e coinvolti in diverse attività. Siano essi lavori di muratura, cura degli orti o altro.
Vengo a sapere che alcuni di loro hanno compiuto la maggiore età. Si tratta dunque di giovani che, altrove da qui, verrebbero allontanati da qualsiasi altro centro o comunità. Poco importa se arrivati in Italia all’età di 17 anni senza avere il tempo necessario ad avviare il processo di integrazione. Ma don Giusto non lascia indietro nessuno.
Purtroppo, le realtà che, in Italia, si prendono cura di questi ragazzi sono ancora poche. E quelle che lo fanno stanno in piedi grazie alla buona volontà di tanti. Grazie alle donazioni e ai tanti volontari che mettono a disposizione il loro tempo e la loro professionalità.
Cosa ne sarebbe di questi ragazzi se le associazioni e la cittadinanza smettessero di intervenire e mettere le pezze alle falle dello Stato?