Ci sono vite che finiscono per essere romanzi. Storie, in cui si cambiano i nomi delle persone, della nave su cui si sale per salvare vite, ma che rimangono intrise del significato vero che le nutre, delle esperienze che si vivono e di cui è necessario lasciar traccia. Questo è il libro di Caterina Bonvicini, che il Mediterraneo di cui racconta lo ha solcato davvero, imbarcata, per diverse volte. E la nave, anche quella del romanzo, è un luogo che non è mai inanimato. Nessun luogo lo è di per sé, ma le navi delle ong lo sono ancora meno. Sarà perché trasportano animi e anime.
Al centro del libro di Bonvicini ci sono i salvataggi, in particolare uno, quello in cui scatta l’amore a prima vista tra Amy, una bambina di cinque anni, salvata da un naufragio a nord di Zawiya, in Libia, e Caterina. Per la quale è difficile non rimanere colpita da questa piccola che indossa un cappellino nero di lana che già brilla di luce propria per degli strass e che riflette maggiormente con la luce del faro di pattugliamento.
Un attimo e Amy diventa la sua bambina, che ha una mamma certo, Chantal, una giovane vedova di 22 anni, che ha un altro figlio, Bubà, che ancora deve arrivare. Quando la famiglia si ricompone non è però facile prendersene cura. Perché sono tante le cose complicate da comprendere. E le aspettative di chi decide di accogliere non sempre corrispondono con i desideri di chi arriva. Ci sono le incomprensioni e le burocrazie, i non detti. E poi quel “molto molto tanto bene” che è legame che non si scioglie.