“Questa è la volta dell’Africa”, recitava l’inno dei Mondiali 2010. Per la prima volta la competizione più prestigiosa si disputava sul suolo africano e il continente si presentava alla rassegna iridata con sei rappresentanti. Le aspettative erano elevate e cinque delle federazioni partecipanti si affidarono a tecnici europei per non deluderle.
In particolare, il Sudafrica padrone di casa mise sotto contratto il brasiliano Carlos Alberto Parreira, campione del mondo con la Seleçao nel 1994. La fase a gironi andò discretamente: i Bafana Bafana non si qualificarono agli ottavi di finale, ma accumularono quattro punti e una vittoria contro la Francia.
Il successo più importante, però, fu rendersi conto di avere già tra le mani un professionista locale che avrebbe cambiato la storia del calcio africano: Pitso Mosimane, al tempo assistente di Parreira e futuro plurimo campione d’Africa sulle panchine di Mamelodi Sundowns e Al Ahly.
Nell’ultimo decennio “Jingles”, com’è soprannominato in patria, ha elevato lo status dell’allenatore africano e ha convinto molti dirigenti in giro per il continente a concedere fiducia ai tecnici autoctoni. Così ha fatto la federcalcio senegalese, che nel 2015 ha dato carta bianca ad Aliou Cissé per costruire una squadra che potesse vincere in Africa e competere col resto del mondo.
Ci sono voluti sette anni, ma la visione a lungo termine della dirigenza federale ha dato i frutti sperati: nel 2022 sono arrivati il primo trionfo in Coppa d’Africa e la seconda qualificazione consecutiva ai Mondiali, la terza della storia. Cissé è stato un pioniere, il primo a ricevere realmente in mano le chiavi della nazionale del proprio paese.
Molte altre federazioni hanno poi intrapreso questa strada, motivo per cui quest’anno, per la prima volta, tutte le nazionali africane qualificate ai Mondiali sono guidate da un ct locale. A Cissé si sono aggiunti Walid Regragui (Marocco), Jalel Kadri (Tunisia), Otto Addo (Ghana) e Rigobert Song (Camerun).
Senegal e Marocco le favorite
E non per questo le ambizioni si sono abbassate. Al netto delle condizioni fisiche di Sadio Mané, leader indiscusso del Senegal che si è infortunato alla testa del perone destro a pochi giorni dall’annuncio della lista dei convocati e seguirà il torneo da casa, i Leoni della Teranga sono la nazionale africana più accreditata a passare la fase a gironi e ad andare oltre lo scoglio dei quarti di finale.
Le prestazioni ai Mondiali del 2018 e i successi più recenti sono infatti la conferma di una crescita costante e certificata. Al secondo posto, in un’ipotetica classifica delle migliori africane, si staglia il Marocco, che si appresta a disputare la sua sesta Coppa del Mondo.
La generazione che diede spettacolo in Russia quattro anni fa è praticamente andata in pensione, ma anche in questo caso la lungimiranza della federazione ha fatto sì che i Leoni dell’Atlante non rimanessero indietro.
L’ottimo lavoro in termini di formazione in patria e un eccellente staff di osservatori sparsi per l’Europa hanno contribuito a creare nuovamente una squadra competitiva, composta da un mix efficace di binazionali e calciatori cresciuti in Marocco. Recentemente la ricerca sta portando risultati anche in Italia: nel nostro paese è nato Walid Cheddira, capocannoniere della Serie B e uno degli ultimi elementi integrati da Regragui.
Non si può dire altrettanto per l’altra nordafricana in gioco, la Tunisia, anch’essa alla sua sesta partecipazione. Le Aquile di Cartagine hanno sì inserito in rosa vari calciatori promettenti scovati tra le varie diaspore europee, come Hannibal Mejbri di proprietà del Manchester United, ma il reclutamento appare occasionale e non supportato da uno sviluppo adeguato del talento locale.
La buona notizia è che finalmente, all’età di 32 anni, il capitano e icona del calcio tunisino Youssef Msakni potrà scendere in campo ai Mondiali, ma gli ostacoli Danimarca e Francia appaiono insormontabili.
È andata meglio a Ghana e Camerun, capitate in gironi decisamente più equilibrati e meno prevedibili. Il problema, però, è la fase di transizione che stanno attraversando entrambe le nazionali, che hanno cambiato allenatore dopo l’ultima edizione di Coppa d’Africa.
Il ghaneano Addo ha optato per un ricambio generazionale che lascia pensare che questa edizione, la quarta per le Black Stars, possa fungere da torneo di rodaggio e trampolino di lancio per i più giovani.
È diverso il discorso per il Camerun. Forti della loro ottava partecipazione ai Mondiali, i Leoni Indomabili puntano in alto a prescindere dal loro reale stato di forma e dalle solite diatribe interne che accompagnano l’avvicinamento a un appuntamento internazionale.
Samuel Eto’o, presidente federale dal dicembre 2021, ha alzato l’asticella e dichiarato che vede il Camerun campione del mondo in una finale tutta africana contro il Marocco. Per migliorare le prestazioni delle passate edizioni per la panchina ha scelto Song, ex difensore della Salernitana che in precedenza aveva allenato l’U23.
In definitiva, sono concrete le possibilità di non vedere eguagliato il record negativo di Russia 2018, in cui tutte le nazionali africane uscirono al primo turno. Ma comunque vada una vittoria è già stata raggiunta: mostrare al mondo che gli allenatori africani sono capaci e meritevoli di guidare la selezione del proprio paese. Una vittoria anche al femminile, visto che per la prima volta in campo scenderanno anche tre arbitre donne, una delle quali è la rwandese Salima Mukansanga.
Non solo calcio.
Dentro e dietro gli spalti sfruttamento e diritti negati
Gli agghiaccianti retroscena di questa Coppa del mondo per quanto riguarda i diritti umani basilari sono offuscati dall’imponenza della gigantesca macchina del business. Nigrizia ha comunque scelto di seguire l’aspetto sportivo del massimo torneo mondiale, per continuare a raccontare le tante facce delle Afriche.
Ma vuole anche evidenziare l’ipocrisia che si nasconde dietro eventi come questo. In coda ad ogni articolo che racconterà questi Mondiali, ricorderemo che paese è il ricco Qatar per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani e delle libertà basilari.
Cominciamo con lo sfruttamento del lavoro. Human Rights Watch stima in migliaia il numero di lavoratori stranieri morti durante la costruzione di stadi e infrastrutture necessarie al torneo.
Morti per mancanza di dispositivi di sicurezza e per turni di lavoro mal retribuito e massacrante sotto il sole, a temperature arrivate a superare i 43 gradi. La stragrande maggioranza erano migranti arrivati per l’occasione in Qatar dall’Asia in cerca di lavoro. Schiavi, insomma. Le autorità hanno ammesso la morte di solo 3 persone.
In compenso, la Fifa ha accettato di rivoluzionare il calendario spostando il Mondiale dal consueto appuntamento di luglio-agosto a novembre, quando il caldo allevia la sua morsa infierendo meno… su pubblico pagante e giocatori. (MT)