Pochi mesi fa sono state scoperte ripetute pratiche di violenza sessuale nel centro di formazione della polizia di Matalane (appena fuori la capitale Maputo), messe in atto dagli istruttori cui erano state affidate le nuove reclute.
I fatti risalgono allo scorso anno, ma sono diventati di dominio pubblico a causa di una fuga di notizie dall’interno degli apparati di polizia. Qualcuno ha consegnato ai giornalisti un documento riservato in cui vi era la descrizione minuziosa degli abusi e delle violenze “istituzionalizzate”, commesse dagli istruttori ai danni delle reclute di sesso femminile.
Non è stato difficile, in questo caso, raccogliere le prove. Circa quindici reclute, in stato di gravidanza avanzata, hanno raccontato il calvario a cui erano state costrette. Queste giovani hanno subito un ulteriore danno: non avendo potuto concludere il corso cui tanto tenevano, hanno chiuso sul nascere la loro carriera professionale.
Lo scandalo ha smosso lo stesso presidente della repubblica, Filipe Nyusi, che ha classificato l’accaduto come «serio», mentre diversi movimenti sociali femminili hanno iniziato a raccogliere firme su una petizione che chiede che i responsabilio degli abusi siano processati.
Tali movimenti, Txeka tra questi, denunciano anche che nelle scuole di ogni ordine e grado, alcuni professori abusano delle allieve e si registrano gravidanze tra le adolescenti. Fatti che distruggono non soltanto le vite private delle giovani, ma impediscono loro di continuare a studiare, condannandole a una esistenza relegata alla dimensione domestica, spesso senza un marito su cui contare.
Tali organizzazioni hanno infine evidenziato come anche ai livelli più alti dello stato mozambicano tali pratiche siano ormai diventate “istituzionali”, nonostante la forte presenza di organizzazioni femministe, come il Fórum Mulher. Alberto Niquice, deputato del Frelimo dal 2019, è accusato di violenza sessuale nei confronti di una bambina di 13 anni e sarà processato. Molte organizzazioni femministe hanno chiesto che sia sospeso dalla sua la sua carica di deputato, ma non c’è stato nulla da fare.
Rete di sfruttamento
In questi giorni, un altro terribile caso di violazioni sessuali istituzionalizzate ai danni di detenute è stato scoperto e pubblicato dall’organizzazione non governativa Centro di integrità pubblica (Cip), in seguito a una inchiesta giornalistica assai complessa e difficile. I risultati di tale inchiesta – con tanto di testimonianze da parte di donne ancora recluse e di altre già in libertà, oltre che di registrazioni telefoniche – sono assai chiari.
Esiste da tempo una rete consolidata di sfruttamento delle detenute da parte di diverse guardie carcerarie nel carcere femminile di Ndlavela (Maputo), che tocca soprattutto le più giovani e avvenenti. Il meccanismo inizia, secondo quanto riferito dal Cip, con l’identificazione, da parte delle guardie, dei soggetti prescelti, aiutati in questo dalla leader anziana delle carcerate.
Una volta effettuata la selezione, viene proposto alla donna di uscire dal carcere, di solito 2-3 volte la settimana, per incontrarsi in una pensione con clienti prescelti e a lei sconosciuti, ed avere con loro relazioni sessuali. Se la donna si rifiuta, subisce ogni genere di angherie e spesso anche violenza sessuale da parte delle stesse guardie. E ciò fino a che non accetta il compito che le è stato assegnato.
Il prezzo per le “piccioncine”, così sono chiamate le più giovani, è più alto rispetto a quello per le “conigliette” (più anziane e, quindi, meno appetibili) e oscilla tra i 10 e i 15mila meticais (1 euro = 75 meticais), praticamente il salario medio di un funzionario dello stato. L’unica eccezione alla regola è quando la donna sta nel suo periodo mestruale, ed è quindi esentata da tali prestazioni.
Meno di 24 ore dopo la pubblica denuncia del Cip, la ministra della giustizia Helena Kida ha visitato il carcere e annunciato l’istituzione di una commissione d’inchiesta. «L’indagine dovrebbe durare da 10 a 15 giorni al massimo – ha precisato – e sarà indipendente dal ministero della giustizia». Kida ha anche annunciato che l’indagine sarà estesa anche a tutti gli altri stabilimenti carcerari.
Questo nuovo scandalo mette in luce, ancora una volta, quanto distante sia la retorica di un Mozambico “al femminile” rispetto alla realtà di un sessismo strutturale e istituzionale.
Se, infatti, è vero che il Mozambico si situa fra i venti migliori paesi al mondo per rappresentanza femminile in parlamento, col 42% dei deputati donna, che il presidente dello stesso organismo legislativo è una donna (Esperança Bias), che una delle figure di spicco del partito al potere, Luísa Diogo, è già stata prima ministra, che la procura generale della repubblica è anch’essa diretta da una donna, Beatriz Buchili, la realtà della violenza sulle donne, da quella domestica a quella nelle istituzioni, è ancora molto diffusa e non accenna a diminuire.