È in sala Dahomey, Orso d’Oro alla Berlinale 2024, ultimo film di Mati Diop, regista franco-senegalese, già premiata a Cannes nel 2020 per Atlantique.
Incentrato sulla restituzione alla Repubblica del Benin di 26 oggetti trafugati nel 1982 dalle truppe coloniali francesi, il film, realizzato tra il 2021 e il 2023 e definito dalla regista un documentario fantastico, ha ricevuto il plauso di gran parte della critica internazionale.
In una recente conversazione durante il New York Film Festival Mati Diop spiega come i temi della restituzione, del ritorno e della riparazione abbiano da sempre attraversato la sua ricerca di artista afrodiscendente. Il corto Atlantics (2009) e il lungometraggio Atlantique (2019) nascono da un ritorno della regista verso le sue origini africane fino a quel momento soffocate dall’egemonia del contesto occidentale.
Il desiderio di fare un film di finzione sul tema della restituzione subisce un’accelerazione improvvisa dopo l’annuncio del presidente francese Macron sull’imminente partenza di 26 opere che avrebbero lasciato il Museo Quai Branly alla volta di Cotonou.
Diop decide di testimoniare questo momento attraverso un film dalla struttura produttiva più leggera e una forma libera di giocare con i registri del documentario e del fantastico. Fonda una casa di produzione con sede a Dakar e chiede l’autorizzazione al governo del Benin che accetta di sostenere il film garantendo di non interferire sul contenuto. Dal 2021 al 2023 si alternano quattro fasi di riprese e montaggio, allineate all’agenda ufficiale delle opere.
Il viaggio
L’inizio, che ha come prologo un’inquadratura fissa su dei souvenir della Torre Eiffel esposte a terra in una via parigina, è ambientato al Museo Quai Branly, dove le opere vengono prelevate dalle vetrine espositive e chiuse dentro delle casse di legno per essere poi caricate su un aereo cargo. Attraverso i responsabili dell’operazione facciamo la conoscenza dei protagonisti e del loro stato di conservazione. Una voce metallica , è la statua del Re Ghezo, ci confida i suoi pensieri sul ritorno a casa e le sue perplessità sul suo nuovo nome 26. Sarà questa la voce dei tesori, scritta insieme all’autore Haitiano Makenzy Orcel, l’unica ad accompagnarci lungo il viaggio che viene rappresentato simbolicamente dallo schermo nero e immagini dell’Oceano.
A Cotonou seguiamo il grande camion che contiene le opere fino all’ingresso del Palazzo Presidenziale. L’arrivo è coordinato dal conservatore Calixte Biah e dal commissario d’esposizione Alain Godonou ma l’importanza del momento è segnata dalla presenza di tappeti rossi e da una benedizione del suolo.
Un dibattito più ampio
Il film cambia poi registro per concentrarsi su un dibattito tra studenti, ricercatori e giovani docenti organizzato da Diop in un anfiteatro dell’università d’Abomey Calavi. L’intenzione è di creare un dialogo tra le opere e le giovani generazioni lasciando lo spazio a tutte le opinioni. L’amnesia collettiva provocata dal furto delle opere rende necessaria una riconnessione tra i giovani beninesi e l’antica cultura Fon ma solleva al tempo stesso una serie di questioni irrisolte legate alla violenta eredità del colonialismo.
La sostituzione delle lingue locali con le lingue dei paesi colonizzatori, l’assenza della storia locale nei programmi scolastici, ma anche la necessità di ripensare i musei dal punto di vista africano sono i temi che emergono nel dibattito. Una ragazza ammette che non aveva idea di cosa fosse stato rubato, qualcun altro si chiede quale sia la responsabilità dei politici e dell’attuale presidente del Benin
Il dibattito si fa acceso quando si tratta di giudicare se l’atto della restituzione di 26 opere su 7000 sia una buona base di partenza o un insulto o di decidere quale sia la giusta collocazione delle opere. Ridare loro il potere iniziale o desacralizzarle esponendole in un museo, istituzione che riflette una visione occidentale e fondamentalmente colonialista?
Interessante riflettere su come il dibattito (diffuso in tutto il campus tramite una radio locale) sia una messa in scena della regista che attraverso un casting e una selezione di domande ha in qualche modo indirizzato, se non manipolato, la discussione.
L’incontro
La terza e ultima parte si concentra sull’incontro del pubblico beninese con le statue. Un momento importante che la regista sceglie di rappresentare in un gioco di riflessi e trasparenze che ci fa vedere le persone attraverso le vetrine.
La voce del Re/26 echeggia tra le vie notturne di Cotonou. Torna l’unica voce che in qualche modo si staglia sul silenzio delle altre statue, un silenzio che evoca la loro parte segreta, opaca e inviolabile
Nella ricerca di una texture dall’estetica futurista che possa distaccarsi da un immaginario folcloristico, ruolo importante ricopre la musica che si apre a dimensioni più fantastiche ( Wally Badarou) e spirituali (Dean Blunt.)
Il film sarà disponibile prossimamente anche su Mubi.