La vicenda giudiziaria è cominciata 16 anni fa, nel 2005, quando sei uomini, originari del Mali, hanno citato in giudizio la sussidiaria statunitense della multinazionale svizzera Nestlé e il colosso alimentare statunitense Cargill.
Hanno raccontato di essere stati deportati in Costa d’Avorio, dove hanno lavorato ridotti in schiavitù nelle piantagioni di cacao che riforniscono le due multinazionali. Niente paga, controllo continuo sotto la minaccia delle armi, anche durante la notte.
Secondo le testimonianze, al momento della loro cattura e del lavoro nelle piantagioni, erano tutti minori di 16 anni. Alla corte hanno raccontato di essere stati costretti a lavorare dalle 12 alle 14 ore al giorno con una paga quasi inesistente, in cambio di cibo.
I querelanti raccontano anche di essere stati costretti a maneggiare pesticidi e fertilizzanti chimici senza adeguate protezioni e di aver subito ferite da machete per la mancanza di sicurezza. L’accusa nei confronti delle compagnie è di aver permesso che questo avvenisse e di non aver vigilato sui fornitori, pur di tenere basso il prezzo della manodopera e del prodotto finale.
La maggioranza dei giudici della Corte Suprema, otto contro uno, ha dichiarato inammissibile la richiesta di giudizio per le due multinazionali. Cargill e Nestlé non possono essere giudicate per violazioni avvenute nelle piantagioni della Costa d’Avorio, fuori dal territorio degli Stati Uniti.
Secondo la corte non ci sarebbero prove che le decisioni manageriali prese negli uffici statunitensi abbiano portato al lavoro forzato dei querelanti in Costa d’Avorio. Con questa decisione la corte ha rovesciato la sentenza che aveva permesso di avviare il processo nel 2005.
Secondo i giudici la denuncia non ricadrebbe nell’Alien Tort Statute, una legge che risale al diciottesimo secolo e permette a cittadini non americani di richiedere danni tramite la giustizia statunitense. In poche parole: nessuna delle violazioni dei diritti e delle condotte illecite avrebbe avuto luogo negli Stati Uniti.
Gli avvocati dell’International Rights Advocates, che seguono la causa dal 2005, hanno annunciato di essere pronti ad aprire un nuovo processo, ribadendo come le decisioni prese da Cargill e Nestlé negli Stati Uniti abbiano favorito la schiavitù minorile in Costa d’Avorio. “Decidevano i budget, pianificavano e stabilivano gli investimenti dagli uffici negli Usa” sottolinea International Rights Advocates. Gli avvocati evidenziano anche come nessuna delle parti abbia mai negato le sofferenze e gli orrori vissuti dai querelanti.
Le due compagnie, dal canto loro, ribadiscono la politica di tolleranza zero nei confronti dell’uso dei minori nel lavoro delle piantagioni e condannano le deportazioni. Entrambe le multinazionali hanno sottolineato di aver adottato misure di controllo nei confronti dei loro fornitori. Sin dall’inizio, Cargill e Nestlé avevano cercato di spostare l’attenzione verso quelli che consideravano gli effettivi responsabili delle violenze nei confronti dei sei: i contadini che li hanno costretti al lavoro e i trafficanti che li hanno deportati.
La piaga del lavoro minorile nelle coltivazioni di cacao sembra lontana dall’essere azzerata. Lo dimostrano inchieste giornalistiche, operazioni di polizia contro la tratta e report. Secondo uno studio, commissionato dal Dipartimento del lavoro degli Stati Uniti, sarebbero circa 1,56 milioni i bambini costretti a lavorare nelle piantagioni tra Costa d’Avorio e Ghana. L’indagine venne condotta durante il raccolto 2018-2019 nei due paesi africani. In Costa d’Avorio circa il 40% dei bambini è obbligato a lavori pericolosi e faticosi nelle piantagioni di cacao, si legge nel rapporto.
È proprio nell’Africa Occidentale che vengono prodotti i due terzi del cacao che si consuma a livello globale.
Nestlé e Cargill non sono le uniche aziende accusate di aver utilizzato schiavi bambini. Nel 2021 sono finite sul banco degli imputati anche Mars, Olam, Hershey, Mondelēz e Barry Callebaut. Ad accusare le compagnie sono otto cittadini del Mali supportati da International Rights Advocates attraverso una class action. Chiedono i danni per il lavoro forzato a cui sono stati costretti, reclamano compensazioni per l’arricchimento illecito e puntano il dito contro una supervisione negligente.