Persino sui media mainstream italiani che di solito non hanno come priorità il continente africano, la Nigeria sta avendo in questi giorni un’attenzione particolare. E di motivi ce ne sono. Cominciamo con il più stravagante, vale a dire la proposta di cambiare il nome alla nazione.
Non più Nigeria, ma Repubblica Unita Africana (United African Repubblic), termine che dovrebbe riflettere le centinaia di gruppi etnici che compongono il paese. O, in alternativa, United Alkebulan Republic (il significato di alkebulan è “madre dell’umanità” o “giardino dell’Eden”).
La proposta è stata avanzata da un comune cittadino, Adeleye Jokotoye, consulente fiscale di Lagos, che l’ha depositata presso la speciale commissione della Camera dei rappresentanti della Nigeria (che corrisponde alla nostra Camera dei deputati) e vorrebbe un referendum affinché la nazione possa esprimersi su questa proposta.
Ne spiega i motivi in una lettera pubblicata, tra gli altri, sul portale informativo Bella Naija. C’è di mezzo la voglia di liberarsi – spiega Jokotoye nella missiva – da quella che era stata un’imposizione dei colonizzatori britannici.
Le reazioni sui social
Il nome Nigeria – che deriva dal fiume Niger – era stato suggerito alla fine del XIX secolo dalla giornalista britannica Flora Shaw, che in seguito avrebbe sposato l’amministratore coloniale britannico, Lord Frederick Lugard. Moltissimi i commenti e le reazioni sui social. Alcuni scherzosi e ironici, come chi si domanda se i cittadini dell’UAR si chiameranno urani, chi ha rivisitato l’inno nazionale o chi ha già disegnato la nuova valuta.
Altri puntati sull’inadeguatezza di una discussione del genere, visto che i problemi sono altri. Come quello di Natacha, influencer, attivista, youtuber che in un tweet ha scritto: “Dare un altro nome alla Nigeria non è una questione importante. Piuttosto dateci buone strade, sicurezza, elettricità, assistenza sanitaria. Dateci i servizi di base”. O questo: “Si tratta solo di una perdita di tempo. È come un ristorante che serve cibo di scarsa qualità e quindi cambia il nome per attirare nuovi clienti ma con lo stesso cibo cattivo”.
Il presidente Muhammadu Buhari, attraverso l’assistente ai nuovi media, Bashir Ahmad, si è affrettato a prendere le distanze e specificare che la proposta è un’iniziativa privata. Certo il presidente ha molti altri motivi per essere preoccupato. A cominciare dalla piaga dei rapimenti di studenti, studentesse, spesso ancora bambini, dalle scuole.
Futuro compromesso
L’ultimo caso pochi giorni fa, 136 giovanissimi – ma altre fonti danno un numero più alto – prelevati con la forza dalla Salihu Tanko, una scuola islamica nel Nord del paese e frequentata da bambini dai 3 ai 14 anni. Ad assalirla uomini armati e in motocicletta che hanno costretto i bambini ad una corsa forzata nella foresta e verso chissà dove.
Solo da dicembre scorso gli studenti e studentesse rapiti sono oltre 700, anche se in realtà è sempre difficile avere cifre esatte e molte scuole sono state costrette a chiudere perché nessuno poteva garantire la sicurezza di ragazzi e insegnanti. E così in Nigeria la frequenza scolastica risulta al di sotto della media di altri paesi sub-sahariani.
Secondo l’Unicef circa 10.5 milioni di bambini non vanno a scuola. Inoltre, negli Stati del Nord-Est e del Nord-Ovest – laddove di frequente si manifestano azioni legate a Boko Haram, rispettivamente il 29 e il 35% dei bambini di religione musulmana ricevono solo un’educazione coranica che non include lezioni basilari, come leggere e fare di conto. Non dimentichiamo il significato del termine Boko Haram “l’educazione occidentale è proibita”.
Una situazione esplosiva – non solo per il presente – ma anche per il futuro. Cosa accadrà a questi ragazzi a cui è impedito di andare a scuola? E quanti di quelli che non sono mai tornati a casa sono già entrati – non avendo altra scelta – nelle fila dei gruppi terroristici o si sono dati al banditismo? I genitori da tempo non nascondono le critiche al governo, sia quello centrale, che quelli locali, accusati di non fare nulla di davvero sostanziale e definitivo per fermare queste azioni. E così si vive in uno stato costante di paura e di senso del pericolo.
Il Nord fuori controllo
In special modo nel Nord della Nigeria, dove ormai la presenza di gruppi jihadisti è massiccia. Il motivo di questi rapimenti è ormai noto, chiedere riscatti che serviranno evidentemente a finanziarie le attività terroristiche e le famiglie degli affiliati. Le autorità nigeriane li definiscono genericamente “banditi”, un modo – forse – per sminuire la gravità della situazione che ha perso da tempo le caratteristiche del “caso isolato” ma che negli anni si è incancrenita fino a diventare, di fatto, fuori controllo.
Con differenze tra Stato e Stato (36 sono quelli che compongono il paese), la Nigeria non appare un luogo sicuro. Almeno a giudicare dai dati. Dall’inizio dell’anno 6.425 persone sono state uccise in azioni violente (alla data del marzo scorso erano 2.048). Non sono i numeri del 2014, quando i morti furono 22.872, ma di certo l’aria che si respira non è serena.
L’industria dei sequestri
Torniamo ai rapimenti, diventata una vera e propria industria nel paese. Si conta sul fatto che i genitori farebbero qualunque cosa per riportare a casa i propri figli. Un recente report di SB Morgen concentrato appunto su quella che viene definita l’”industria economica dei rapimenti in Nigeria” ha stabilito che dal 2011 al 2020 i cittadini nigeriani hanno pagato almeno 18 milioni di dollari per riacquistare la libertà o liberare i propri parenti. E così tali gruppi – che agiscono quasi indisturbati – si sono consolidati, portando e lasciando terrore dietro di sé.
Un lavoro di Crisis Group evidenzia che dal 2011 al 2019 le azioni di Boko Haram hanno provocato 8mila vittime solo negli Stati nord occidentali del paese e nel 2020 almeno 260mila persone sono state costrette a trovare rifugio in altri Stati o nei paesi confinanti. Ma ad incidere sull’insicurezza di queste parti del paese è anche l’ormai cronico conflitto tra agricoltori e pastori nomadi, impegnati a sfruttare le stesse risorse e ad accusarsi reciprocamente di usarle (o prendersele con la violenza) a discapito degli altri.
Secondo alcuni commentatori, al di là delle affiliazioni religiose, molte sarebbero le bande armate formate da ex pastori che trovano oggi più lucrativo vivere di riscatti. Un’“occupazione” resa anche possibile – come dicevamo – da quella che appare una vera e propria incapacità dello Stato di controllare il territorio. A peggiorare la situazione sono i contrasti e le vere e proprie guerre interne tra i vari gruppi jihadisti.
Boko Haram e Iswap in lotta per il territorio
Sarebbe ormai certa la morte di Abubakar Shekau, per molti anni leader indiscusso e sanguinario di Boko Haram. Fu lui ad architettare il rapimento, nel 2014, di centinaia di ragazze da una scuola a Chibok nello Stato del Borno. Un episodio che destò sconcerto al livello internazionale e diede vita al movimento #BringBackOurGirls. Molte di loro non sono mai tornate a casa.
La sua intransigenza e violenza erano persino invise allo Stato islamico che nel 2016 si dissociò dalle azioni di Shekau. Da quel momento nasce un altro gruppo, l’Iswap. Secondo le ricostruzioni (la notizia della morte è stata data dall’Iswap e finora non confermata da altre fonti, ndr), l’uomo si sarebbe fatto esplodere pur di non finire nelle mani dei rivali che ormai da tempo lo braccavano. L’ordine di liberarsi di lui sarebbe arrivato proprio dalla centrale di comando dell’Isis. Era diventato un personaggio troppo scomodo, anche per i capi del movimento jihadista.
Intanto, nelle lotte di potere e di occupazione di un territorio sempre più compromesso è la popolazione ad essere tenuta sotto scacco. Ed è molto, molto improbabile che la morte di Shekau allenterà la presenza dei gruppi terroristici in queste aree del paese. Lo dimostra, d’altro canto, l’ultimo rapimento di massa, avvenuto quando già circolava ampiamente la notizia della morte, appunto, di uno dei leader più temuti della storia di Boko Haram in Nigeria.
Ora, probabilmente, come scrive la BBC, i suoi seguaci si disperderanno in altri gruppi pronti ad accoglierli per aumentare le proprie fila. La morte di Shekau – il modo in cui sarebbe avvenuta – è un’ulteriore macchia sull’immagine del governo di questo paese. Ad ucciderlo sarebbe stata una componente rivale del movimento, mentre infruttuose sono state le ricerche delle forze di sicurezza in tutti questi anni.
I giovani e la crisi economica
Uno Stato, quello nigeriano, che si dimostra sempre più fragile e incapace di rispondere ai bisogni minimi della popolazione. Secondo il World Poverty clock il 43% della popolazione, quasi 89 milioni di persone, vive in condizione di povertà estrema, vale a dire con meno di 1,90 dollari al giorno. La pandemia e la crescita della popolazione peggioreranno probabilmente la già drammatica situazione.
Ed è cresciuto il tasso di disoccupazione. I dati diffusi dall’Ufficio nazionale statistiche, affermano che nel 2020 la disoccupazione tra i giovani tra i 15 e i 34 anni era pari al 34.9% (era precedentemente del 29.7%). Un fenomeno che interessa soprattutto i giovani che vivono negli Stati segnati dalla violenza. Il Foreign Policy mette la Nigeria nel gruppo di Stati i cui governi hanno ormai perso il controllo della situazione (gli altri citati sono la Repubblica democratica del Congo, la Repubblica Centrafricana e il Myanmar).
L’economia è praticamente in uno stato di blocco, sostiene The Economist, con l’inflazione al 18% che ha fatto aumentare i beni primari e schizzare quello del cibo al 23%, cosa che non si era mai vista negli ultimi 20 anni. E se l’aumento del prezzo del petrolio ha portato un certo sollievo nel primo quarto dell’anno (+0,5%) non sarà questo dato a mettere in sicurezza la disastrata economia del paese.
Intanto, sul fronte Covid-19, è stato deciso di fermare le somministrazioni del vaccino una volta che gli Stati abbiano utilizzato la metà dello stock a loro disposizione. Questo per garantire che ci sia un numero sufficiente di vaccini per inoculare la seconda dose. Mentre si fanno i conti con la variante nigeriana, su cui si stanno facendo ancora ricerche.