«Quando hai trascorso quasi 10 anni della tua vita insieme ai miliziani di Boko Haram, non è possibile non diventare una di loro e non credere nelle loro ideologie». A pronunciare queste parole, a voce è bassa e con tono misurato è Hafsah Ibrahim, rapita dal gruppo terroristico nello stato di Borno, nel nord-est della Nigeria, durante i primi anni dell’insurrezione jihadista.
Hafsah parla alla giornalista e avvocato Hauwa Shaffii Nuhu, che per intervistarla e vincere la sua diffidenza ha passato alcuni giorni con lei, che dopo essere andata in sposa a un comandante del gruppo terroristico è riuscita a fuggire dalla foresta di Sambisa.
La testimonianza, pubblicata su Humananglemedia, è scioccante e anche illuminante, tanto che dovrebbe essere riproposta nelle scuole nigeriane. Soprattutto quando la ex jihadista racconta degli attentati suicidi portati a termine dalle ragazze nei primi anni dell’insurrezione e di come le giovani venivano preparate all’istishhād (martirio). A cominciare dalla sofisticata intrecciatura dei capelli fino alla vestizione con abiti nuovi di zecca per entrare degnamente nella jannah (il paradiso dei musulmani).
Nella ricostruzione si intuisce come queste sfortunate ragazze abbiano subìto il lavaggio del cervello da parte degli islamisti, tanto da rifiutare di consumare l’ultimo pasto di cibo terreno nell’imminenza del martirio, perché già riuscivano a percepire l’odore di pietanze celestiali.
Il programma di deradicalizzazione, riabilitazione e rieducazione, noto come operazione Safe Corridor, lanciato nel 2016 e gestito dal personale militare del governo federale, dovrebbe essere l’ideale per reintegrare nella società ragazze come Hafsah. Tutte vittime dell’insurrezione, rapite e indottrinate con la forza, che in seguito si sono radicalizzate.
Tuttavia, il programma è stato oggetto di pesanti critiche, in particolare dovute alle insufficienti procedure di screening delle autorità per chi era riuscito a fuggire dai territori sotto il controllo di Boko Haram, oltre ai pesanti abusi subiti, da parte dei militari, durante la custodia. Ma l’aspetto più sconcertante è racchiuso nel fatto che nel programma di recupero non è mai stata ammessa nessuna donna.
Particolarmente toccante è la testimonianza di tre ragazze rapite dai jihadisti, che non si erano arrese ai militari nigeriani o avevano disertato il gruppo estremista, ma erano semplicemente fuggite alcuni mesi dopo la cattura.
Le tre giovani sottoposte al primo programma di deradicalizzazione, progettato e implementato dalla psicologa comportamentale Fat Akilu, hanno riferito di essere state costrette a indossare bikini all’aperto e a stringere la mano a uomini, nonostante fosse contrario alle loro convinzioni religiose, per dimostrare che non erano estremiste musulmane.
La dottoressa Akilu ha riportato che, nel 2015, aveva de-radicalizzato 63 donne liberate dai militari dal giogo dei miliziani, rilevando che era più difficile affrancarle dalle ideologie estremiste, rispetto alle loro controparti maschili.
Ci sono stati anche casi in cui alcune sono tornate al gruppo terroristico dopo aver completato il programma, che prevedeva il sostegno psicologico, attività ricreative, corsi di formazione per sviluppare la capacità di pensiero critico e la guida di un imam per portare avanti il “disimpegno” ideologico.
Il programma è stato poi cancellato dall’attuale governatore dello stato di Borno, Babagana Umara Zulum, che dopo la sua elezione ha deciso che non era più il caso di andare avanti con quelle attività.
La psicologa ritiene erroneo pensare che le donne siano concretamente innocue e sempre vittime. «Nel corso del programma, molte giovani hanno affermato di aver svolto un ruolo attivo nell’insurrezione e per questo dovrebbero essere segregate e sottoposte allo stesso processo di rieducazione degli uomini».
La dottoressa Akilu ha anche spiegato che le donne hanno svolto diversi ruoli attivi nell’ambito dell’insurrezione, in cui talvolta hanno esercitato una funzione di rilievo nella diffusione dell’ideologia e nel reclutamento nelle fila del gruppo. Mentre altre ragazze hanno svolto un ruolo attivo nel contrabbando di armi oppure come spia o staffetta, senza tralasciare mansioni più pratiche come quella di cuoca o lavandaia.
Hafsah Ibrahim inoltre ha confermato all’avvocato Nuhu che le donne hanno curato i feriti durante le battaglie, mentre in altre occasioni hanno aiutato gli insorti a recuperare e seppellire i cadaveri.
Secondo la psicologa, uno dei maggiori rischi di riportare le radicalizzate nella società, è che potrebbero finire per aiutare velatamente a reclutare nuovi membri per il gruppo terroristico, facendo proseliti nelle comunità in cui vivono. Potrebbero anche tornare a far parte del gruppo terroristico, come è accaduto con alcune che erano state deradicalizzate con successo.
Quest’ultima possibilità trova riscontro nella testimonianza di Hafsah, che spiega come molte disertrici decidano di tornare a far parte del gruppo, dopo aver scoperto che, una volta ammesse al programma, diventa difficile anche trovare qualcosa da mangiare sé e per il proprio bambino. Difficoltà che portano a rimpiangere vita precedente.