La Shell non deve cedere le proprie strutture petrolifere in Nigeria senza avere prima effettuato una valutazione dell’inquinamento ambientale causato, provveduto a finanziarne la bonifica e pienamente consultato le comunità locali coinvolte.
A sostenerlo è un gruppo di 40 organizzazioni ambientali e per i diritti – tra cui Amnesty International, Friends of the Earth e l’italiana ReCommon – firmatarie di una lettera aperta all’autorità di regolamentazione dell’industria nigeriana (Nigerian Upstream Petroleum Regulatory Commission – NUPRC), nella quale chiedono al governo di bloccare la vendita delle attività petrolifere onshore di Shell nella regione meridionale del Delta del Niger – uno dei territori più inquinati del pianeta -, dove da molti decenni lo sfruttamento petrolifero causa gravi violazioni dei diritti umani e immensi danni ambientali.
“Le frequenti perdite di petrolio dalle infrastrutture e le pratiche inadeguate di manutenzione e pulizia hanno lasciato contaminate le acque sotterranee e le fonti di acqua potabile, avvelenato i terreni agricoli e la pesca e danneggiato gravemente la salute e i mezzi di sussistenza degli abitanti”, ha affermato Olanrewaju Suraju, presidente di Human and Environmental Development Agenda (HEDA).
“C’è ora un rischio sostanziale che la Shell si ritiri con miliardi di dollari dalla vendita di questa attività, abbandonando coloro che sono già danneggiati e affrontano continui abusi e danni alla salute… Non si deve permettere alla Shell di sottrarsi alle proprie responsabilità di ripulire e porre rimedio al diffuso retaggio di inquinamento nell’area”.
Il 16 gennaio Shell ha annunciato di aver raggiunto un accordo per vendere la sua controllata onshore nigeriana Shell Petroleum Development Company (SPDC) a Renaissance African Energy, un consorzio formato da quattro società di esplorazione e produzione con sede in Nigeria e da un gruppo energetico internazionale. Un’operazione del valore di 2,4 miliardi di dollari che deve essere approvata dal governo.
Ma, sostengono i firmatari dell’appello, il consorzio acquirente non ha i mezzi per far fronte agli ingenti investimenti necessari per ammodernare le infrastrutture obsolete che presentano perdite e per metterle in sicurezza, smaltrendo le parti dismesse.
“Renaissance è una nuova società. Non ha una storia finanziaria e ci sono poche informazioni disponibili di dominio pubblico sui dati finanziari di una qualsiasi delle società che compongono il consorzio” si legge. “Le dichiarazioni di Renaissance sono tutt’altro che rassicuranti”, in quanto “il consorzio precisa di avere una base patrimoniale di oltre 3 miliardi di dollari”.
Mentre la bonifica, nel solo stato di Bayelsa, stima la Commissione locale, costerebbe circa 4,2 miliardi di dollari.
Nella lettera si fa notare inoltre che il consorzio ha chiesto assistenza finanziaria alla Shell per l’acquisizione di SPDC, sotto forma di prestiti a termine fino a 1,2 miliardi di dollari. Un’ulteriore indicazione che “Renaissance non ha la forza finanziaria per affrontare una simile impresa” e che queste passività “potrebbero rendere la società insolvente”.
I firmatari ricordano un precedente simile, quando nel 2010 la Shell vendette la Oil Mining Lease 26 (OML 26) alla First Hydrocarbon Nigeria, società che fu poi messa in liquidazione, con l’amministratore delegato e il direttore operativo condannati nel Regno Unito per frode.