In un incontro avuto a New York il 18 settembre a margine dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite con il presidente di ExxonMobil Upstream Company Liam Mallon, il presidente nigeriano Bola Tinubu ha garantito che il suo paese rimarrà impegnato ad alti livelli nella produzione petrolifera.
L’annuncio non ha sorpreso. Difficile, d’altronde, attendersi un approccio diverso sulle questioni energetiche da parte del presidente Tinubu il quale, prima di darsi alla politica, era stato dirigente della Mobil Oil Nigeria, oggi 11 PLC, ovvero l’unico distributore autorizzato in Nigeria per la commercializzazione dei carburanti e lubrificanti prodotti da ExxonMobil.
Di fronte alle porte spalancate da Tinubu, ExxonMobil ha risposto con un rilancio degli investimenti nel paese che si tradurranno presto nella produzione di 40mila barili di petrolio al giorno.
Se i rapporti tra Abuja e una delle più grandi multinazionali dell’oil&gas del pianeta sono questi, è lecito chiedersi cosa sia verosimile attendersi, da qui ai prossimi anni, dal Piano di transizione energetica varato dalla Nigeria nell’agosto del 2022.
Il piano prevede il raggiungimento della neutralità carbonica del paese entro il 2060. In questo arco di tempo investimenti pari a 1,9 trilioni di dollari porteranno le rinnovabili – in particolare idroelettrico e solare – a rappresentare il 90% delle fonti da cui il paese produce energia.
In questo modo, auspica il governo, aumenterà anche l’accesso all’energia per un numero sempre maggiore di cittadini nigeriani.
Impresa non semplice considerato che al momento, secondo l’Agenzia internazionale dell’energia e il Forum economico mondiale, su 140 milioni di abitanti solo il 71% può vantare questo diritto.
Crediti di carbonio
Nel corso dell’ultima Africa Climate Week, tenutasi a Nairobi a inizio settembre, Tinubu ha detto che per sostenere la transizione energetica della Nigeria sono però necessari 10 miliardi di dollari in investimenti ogni anno.
Il modo più “semplice” per ottenere questi soldi è puntare sul mercato dei crediti di carbonio, ovvero sulla vendita di tonnellate di CO2 non emessa o assorbita, ottenute grazie a progetti di tutela ambientale.
Progetti che, peraltro, come accaduto in Kenya, non sempre garantiscono il rispetto delle popolazioni e degli ecosistemi.
In Africa la Nigeria detiene il più grande potenziale in termini di entrate derivanti dalla compensazione delle emissioni di carbonio. Un potenziale che da qui al 2030 dovrebbe portare nelle casse dello Stato più di 500 milioni di dollari all’anno.
Abuja è intenzionata a sfruttare le opportunità offerte da questo nuovo mercato.
Durante la COP27 tenutasi a Sharm el-Sheikh in Egitto nel novembre del 2022 (la prossima inizia a Dubai il 30 novembre), la Nigeria ha fatto parte di quel gruppo di paesi (gli altri erano Kenya, Malawi, Gabon e Togo) che si sono impegnati a collaborare con la nuova Africa Carbon Markets Initiative (ACMI).
Il cartello punta a mettere sul mercato globale 300 milioni di crediti di carbonio all’anno da cui ottenere circa 6 miliardi di dollari di entrate e creare 30 milioni di posti di lavoro entro il 2030.
Tra gli investitori che si sono già fatti avanti ci sono gli Emirati Arabi Uniti che si sono impegnati ad acquistare da ACMI crediti di carbonio per un valore di 450 milioni di dollari.
Negli ultimi tempi in Nigeria due progetti, in particolare, sono stati sviluppati in questa direzione. Uno, promosso dal colosso del cemento Dangote Industries Limited, permette di catturare e utilizzare il calore di scarto ad alta temperatura per generare elettricità ed aumentarne l’accesso nel paese.
L’altro è il progetto Save Wildlife. Gestito da Access Bank, ha consentito di piantare oltre 100mila alberi in alcune aree deforestate.
Alla Nigeria Sovereign Investment Authority, l’istituto nigeriano che gestisce il fondo sovrano del paese, è stato poi assegnato il compito di sviluppare una strategia nazionale per lo sfruttamento dei crediti di carbonio.
Carbon Vista, joint venture frutto della partnership con Vitol, società olandese di commercio di commodity, investirà 50 milioni di dollari in progetti per l’accumulo di crediti di carbonio.
Parola d’ordine: diversificare
Al netto di questi investimenti, la Nigeria difficilmente può pensare di rinunciare nel breve medio periodo ai contratti che la legano a ExxonMobil e alle altre big company del settore dell’oil&gas.
Il paese è il dodicesimo produttore mondiale di petrolio e il secondo in Africa. Viene considerato un fornitore affidabile in quanto la sua situazione politica interna è relativamente stabile e, soprattutto, il suo è un greggio di alta qualità e con un basso contenuto di zolfo.
Nel continente africano, inoltre, la Nigeria detiene anche le maggiori riserve di gas naturale. Petrolio e gas contribuiscono per circa il 65% alle entrate dello Stato e per oltre l’85% alle sue esportazioni totali.
Altro aspetto da non sottovalutare, e su cui fanno leva le multinazionali fossili nelle trattative con Abuja, è che all’oil&gas in Nigeria viene attribuita una quota non eccessivamente impattante delle emissioni di CO2 equivalente che produce il paese.
Stime recenti attestano questo contributo all’11%, una quota minore rispetto all’impatto dei trasporti, del comparto industriale e dei consumi energetici di una popolazione destinata a crescere moltissimo nei prossimi anni.
La transizione verso fonti energetiche più pulite è comunque un processo al quale anche un gigante delle fossili come la Nigeria non può più sottrarsi.
Ciò non solo per motivi ambientali e per attenuare gli effetti dei cambiamenti climatici che stanno spingendo sempre più cittadini ad accalcarsi nelle grandi città, rendendole altamente energivore, di fatto invivibili e impossibili da amministrare.
È solo diversificando le proprie esportazioni che il paese potrà garantirsi una maggiore sicurezza energetica nel futuro. Una sicurezza che, oggi, non può essere più garantita solo da petrolio e gas.