Questo piccolo manifesto politico, scritto nel lontano 1943, dopo che Hannah Arendt (politologa, filosofa e storica tedesca, naturalizzata statunitense, 1906-1975) viveva, come accadde a tante persone di origine ebrea, già da due anni, negli Stati Uniti, è stato rieditato lo scorso anno. Grazie al lavoro della giornalista Donatella Di Cesare, che ne ha curato e commentato l’edizione. Il perché è tutto nell’attualità delle pagine scritte da una delle apolidi più famose al mondo: Arendt, infatti, rimase senza cittadinanza per ben diciotto anni, dopo che quella tedesca gli fu cancellata dallo stato nazionalsocialista.
È lei a raccontare come sia arduo, per chi ha una identità che è costretto o costretta a mettere in discussione, ridefinirsi, sentirsi comprendere sempre sotto un’etichetta, quella di “rifugiato”, che in realtà non è compresa/accolta davvero in nessun luogo. Nonostante sia destinata a essere sempre più popolata. Un’espressione che è diventata tutto e niente, in quel deserto di diritti, contraddistinto da ostilità, mancate accoglienze e protezione, assenze che accompagnano le decine di milioni di persone che vanno a comporre un continente a parte.
I diritti migranti esistono solo nella diatriba spesso politica, certo polarizzata, tra chi li nega e chi li richiede, non nella realtà di vita di chi ne dovrebbe essere soggetto. Ecco perché nello scritto di Arendt diventano in qualche modo i superflui, gli illegali, i rifiuti che non si sa mai bene dove piazzare, collocare. Come se non fossero persone con progettualità.