Ti manda a sbattere sul basso costo di certi prodotti al supermercato e subito li collega al costo troppo basso del lavoro. Ti fornisce elementi per interrogarti se davvero sei complice di un sistema fondato sul lavoro di para-schiavi (in gran parte migranti che non hanno possibilità di contrattazione: se alzano la testa, sono per strada) e subito ti avverte, che il sistema (che andrebbe chiamato con il suo nome: libero mercato capitalistico) è riformabile se tutti ci mettono qualcosa: noi tutti la consapevolezza di dove viviamo, i cittadini consumatori la caparbietà di comprare con gli occhi etici bene aperti, le aziende il rispetto delle regole, i sindacati la caparbietà di difendere anche gli ultimi degli ultimi, la buona politica il governo del fenomeno.
Forse è così. Ma non siamo una collettività, né tantomeno, una comunità. Prima di fare le riforme sarebbe il caso di trovare il modo di rompere la bolla di individualismo che è parte essenziale della nostro modo di vivere e che ci tiene tutti ben separati.
Comunque il libro-inchiesta funziona e aiuta a capire. E l’inchiesta è la modalità che più si addice all’autrice, giornalista di Radio24-Il Sole 24 ore. Ci fa conoscere il nigeriano Andrew Daldani, 28 anni, che lavora in uno stabilimento di macellazione di carne bovina nel Modenese. Turni di 10 ore, anche di notte, durante i quali spara a 1300 mucche oppure trasporta pezzi di carne in ambienti con temperature fino a meno 12 gradi.
Lavoro massacrante e con un’aggravate: Andrew non ha un contratto di lavoro degli alimentaristi, non è assunto direttamente dall’azienda ma da una società cooperativa che lavora nello stabilimento, di cui non dovrebbe essere dipendente ma socio. Il sistema degli appalti, molto diffuso, consente questa forma di esternalizzazione della forza lavoro.
Così Andrew guadagna la metà dei suoi colleghi assunti dall’azienda e non ha diritto a malattia, ferie, straordinari, trattamento di fine rapporto. E così si spiega anche perché al supermercato troviamo braciole in confezione risparmio a 7,5 euro o la sovracoscia di tacchino a 2,5 euro al chilogrammo. Stime sindacali dicono che in Italia su circa 58mila addetti nel settore della macellazione e trasformazione della carne, oltre 10mila lavorano in appalto.
Sempre lavoro in appalto troviamo nella vicenda Cheikna Hamala Diop, maliano, 26 anni, in Italia da 16, di professione operatore socio sanitario. Fino al 7 maggio 2020 lavorava all’Istituto Palazzolo Don Gnocchi, una fondazione che gestisce a Milano diverse residenze per anziani.
È stato licenziato perché ha denunciato pubblicamente, insieme ad altri colleghi, di non aver potuto usare le mascherine sul lavoro (ha dichiarato: «Ci veniva chiesto di non usarle per non spaventare i pazienti») e di non essere stato avvisato che all’interno della struttura c’erano casi di Covid-19. Nel periodo in cui lavorava Hamala ci sono stati 140 morti e lo stesso Hamala è stato male per cinquanta giorni.
Hamala è stato licenziato ma non è mai stato ufficialmente dipendente del Don Gnocchi; era invece un lavoratore della cooperativa Hampas, diretta dal senegalese ’Ndiaye Papa Waly: lavorava al Don Gnocchi 35 ore settimanali per 1000 euro al mese. Hampas gestisce 225 lavoratori e 127 soci, con un monte di ricavi annuo di 6 milioni di euro.
Infine la pensionata Caterina che non si spiega come si possa acquistare una anguria a 1 centesimo. La risposta è il lavoro schiavo nelle campagne dell’Agro Pontino dell’indiano Kalu Singh, Come lui sono oltre 400mila i lavoratori agricoli esposti al caporalato.