Nello sterminato ventaglio di cose con cui Pelé si è consegnato all’immortalità calcistica, sicuramente non c’è il cosiddetto settimo senso. Come molti altri colleghi, nemmeno O’ Rei ha resistito alla tentazione di regalarci un pronostico un po’ per ogni cosa, anche se quasi mai si è rivelato un oracolo affidabile. Una volta si è espresso con dogmatica convinzione anche sullo sviluppo del calcio africano: «Un’africana vincerà il mondiale entro il 2000», aveva profetizzato.
Il fact checking, però, è stato impietoso: nessuna nazionale rappresentate dell’Africa è ancora riuscita a raggiungere neanche la semifinale. Figurarsi sollevare la Coppa più ambita del pianeta. Eppure, se consideriamo anche le Olimpiadi, la profezia del più grande calciatore di sempre non è stata completamente errata. Nella manifestazione a cinque cerchi, infatti, l’Africa calcistica è riuscita a conquistare quell’affermazione globale sempre sfuggita ai mondiali.
Il percorso per la gloria, però, è stato lungo e ricco di insidie. Fino agli anni ’90 il sogno delle africane – che dal 1920 hanno sempre avuto una loro ambasciatrice (il record appartiene all’Egitto con 12 partecipazioni) alle Olimpiadi con l’eccezione di Montreal 1976 (causa boicottaggio anti-apartheid), si era sempre infranto ben prima della finale, anche se qualche squadra era riuscita a far sognare un intero continente, senza però portare a casa una medaglia.
Ne sa qualcosa anche l’Italia, spazzata via dai giochi di Seul ’88 dallo Zambia di Kalusha Bwalya, tra lo stupore e lo sgomento della stampa nostrana. «L’Italia avrebbe perso anche contro il Codogno», sentenziò velenosamente Gianni Brera. Il leader dei radicali, Marco Pannella, si spinse oltre, staccando un assegno da 4mila dollari – pari al suo stipendio mensile di parlamentare – in favore dell’ambasciatore dello Zambia come premio partita.
L’impresa dei chipolopolo, vittime cinque anni più tardi di una terribile sciagura aerea a largo delle coste del Gabon, restò però isolata: dopo aver fatto innamorare mezzo mondo, strapazzando gli azzurrini di Rocca in mondovisione, lo Zambia collassò al cospetto della Germania Ovest con lo stesso, identico risultato con il quale aveva mandato al tappeto l’Italia, un secco e perentorio 4-0.
La storia è definitivamente cambiata nel 1996, alle Olimpiadi di Atlanta, quando la Nigeria di Kanu e Babayaro ha stupito il mondo, strappando in finale la medaglia d’oro all’Argentina. «È stato il momento più bello della mia carriera. Avevamo una squadra straordinaria, forse la migliore di tutta la nostra storia. Non avevamo nulla da invidiare a nessuno. Potevamo battere chiunque e lo abbiamo dimostrato», ha ricordato l’ex interista Taribo West, celebre per i suoi look stravaganti, in un’intervista alla Bbc.
Difficile dargli torto: allenata dall’olandese Jo Bonfrere, quelle super eagles potevano contare sull’ossatura della nazionale che nel 1994 si era laureata campione d’Africa, prima di far penare l’Italia di Sacchi nell’ottavo di finale del mondiale statunitense. C’erano giocatori come Oliseh, Babayaro, Amunike e Amokachi, con in più la miglior versione di sempre di Nwanko Kanu, già promesso sposo dell’Inter morattiana.
A Milano, durante le visite mediche di rito, i medici nerazzurri avrebbero scoperto un problema alla valvola aortica – un fatto che ha sicuramente frenato l’ascesa del bomber nigeriano – ma ad Atlanta la stella di Kanu fece in tempo a brillare in tutta la sua magnitudine. Soprattutto nella semifinale contro il Brasile di Ronaldo e Bebeto – raggiunta dopo aver superato il Messico ai quarti – schiantato da una doppietta (tra cui il golden goal decisivo) di Kanu al culmine di un match rocambolesco finito 4-3 per i nigeriani.
Nonostante un avvio in salita dopo il gol di Lopéz, sarebbero stati Babayaro, Amunike e Amokachi a completare l’opera in finale con l’Argentina, regalando al movimento calcistico africano la prima grande gioia olimpica della sua storia. «Questa è una vittoria a cui tutto il mondo deve guardare», titolò all’indomani il New York Times, celebrando l’importanza del trionfo nigeriano per tutto il continente.
A Sydney, quattro anni più tardi, a prendersi la gloria e le prime pagine dei quotidiani, fu invece il Camerun di un giovanissimo ma già fortissimo Samuel Eto’o. I leoni indomabili, trascinati dall’esplosiva coppia gol formata da Patrick M’Boma e Samuel Eto’o, si resero protagonisti di una cavalcata memorabile, eliminando in serie il Brasile di Ronaldinho e il Cile di Zamorano, prima di appendersi la medaglia d’oro al collo dopo aver battuto la Spagna di Xavi in finale.
Un successo non casuale, costruito sul calcio offensivo predicato dall’allenatore Jean-Paul Akono, ma sicuramente piuttosto inaspettato. Anche per gli stessi camerunesi. Lo ha recentemente spiegato al canale sportivo statunitense ESPN l’attaccante Patrick Suffo, tra i protagonisti di quella spedizione a cinque cerchi: «Non eravamo andati in Australia con l’obiettivo di vincere il torneo. Eravamo semplicemente partiti per un’avventura».
Come quella che si preparano a vivere Sudafrica, Egitto e Costa d’Avorio. Con la speranza di tornare a casa con una medaglia. Magari quella del metallo più prezioso.