È un processo atteso da molti anni – ed è stato fissato per l’11 ottobre prossimo – quello che dovrà giudicare i colpevoli dell’omicidio di Thomas Sankara, il leader burkinabé assassinato il 15 ottobre de 1987 da quelli che riteneva amici e compagni di un’avventura storica. Un’avventura che – negli ideali dello statista – avrebbe dovuto cambiare le sorti del paese e renderlo davvero libero e indipendente dalla pressione coloniale e dalle regole delle istituzioni finanziarie internazionali (e occidentali).
A premere il grilletto, secondo alcune testimonianze, sarebbe stato Blaise Compaoré, ex compagno d’armi e principale collaboratore di Sankara che ha sempre negato ma che guidò quel colpo di Stato – appoggiato da Francia e Stati Uniti – che gli avrebbe garantito la presidenza del paese fino al 2014.
Una presidenza che non dava fastidio, quanto quella di Sankara, ma che anzi rassicurava quei poteri internazionali che invece si sentivano minacciati da un uomo che parlava di riforme, ridistribuzione delle terre, giustizia sociale, diritti delle donne.
Fini da perseguire con modalità, mezzi, menti africane, burkinabé. Celebri – e che danno il senso dell’ampiezza politica di colui che fu soprannominato “il Che Guevara d’Africa” – il discorso alle Nazioni Unite del 4 ottobre 1984 e quello sul debito del luglio 1987, tre mesi prima di essere assassinato.
Parole di fuoco contro il colonialismo e i suoi effetti, ma anche lucide, chiare, come pochi leader politici africani hanno osato fare. Parole e speranze, quelle di un riscatto vero, che ovviamente si scontravano con le mire di controllo e dominio di una Francia che restava attaccata come una ventosa alle ex colonie. Così come facevano paura agli Stati Uniti quelle idee di giustizia di un leader marxista e panafricano che non si lasciava intimorire dal marchio a fuoco che una parte dell’Occidente gli aveva riservato.
In soli quattro anni da presidente, Sankara diventò il primo leader africano a denunciare la minaccia dell’Aids, prese posizione contro il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale e promosse i diritti delle donne opponendosi alle mutilazioni genitali femminili e alla poligamia.
Ma torniamo al processo che si svolgerà l’11 ottobre nella capitale, Ouagadougou. A comunicare la data è stato il procuratore militare del Burkina Faso. Ha certamente un grande rilievo la decisione di svolgere il procedimento a porte aperte, infatti è stata resa nota anche la location: la sala dei banchetti Ouaga 2000. Dopo 34 anni, questo sarà il «tempo della verità» ha commentato uno degli avvocati delle famiglie delle vittime, tra cui la vedova di Sankara, Mariam.
Ricordiamo che insieme a Sankara furono uccisi altri dodici ufficiali. A metà aprile il caso era stato deferito al tribunale militare di Ouagadougou, dopo la conferma delle accuse contro i principali imputati, tra cui, appunto, l’ex presidente Compaoré. Oltre a lui, altre 12 persone saranno processate. Tra le principali accuse quella per attentato alla sicurezza dello stato e complicità negli omicidi.
Tra gli imputati c’è anche il generale Gilbert Diendéré, uno dei principali leader dell’esercito durante il colpo di stato del 1987 – che in seguito divenne capo di stato maggiore di Blaise Compaoré – e militari dell’ex guardia presidenziale. Il generale Diendéré sta intanto scontando una pena detentiva di 20 anni in Burkina Faso per un tentativo di colpo di stato nel 2015. Gli imputati alla sbarra sarebbero stati molti di più, ma alcuni sono ormai morti.
Compaoré si trova invece in Costa d’Avorio, paese confinante con il Burkina Faso. È qui che è fuggito – e ha trovato accoglienza dal presidente Alassane Ouattara – quando fu costretto a dimettersi e lasciare il paese a seguito della sollevazione popolare del 2014. Oggi l’ex amico e compagno d’armi di Sankara, che quando è stato ucciso aveva 37 anni, ha ottenuto la nazionalità ivoriana e, a meno che non si presenti volontariamente davanti ai giudici, il processo a suo carico si svolgerà in contumacia.
Non c’è da stupirsi che il caso Sankara sia tornato prepotentemente sotto i riflettori dopo la caduta di Compaoré, nei cui confronti la giustizia burkinabé aveva emesso, nel 2015, un mandato internazionale d’arresto anche se le autorità ivoriane hanno sempre respinto le richieste di estradizione.
Parlare di Sankara era praticamente una sorta di tabù nel paese, durante i 27 anni in cui Compaoré è stato presidente. Quando ancora era al potere, ha continuato a negare le richieste per l’esumazione dei resti di Sankara – avvenuta nel 2015 -, ma dopo la sua uscita di scena il governo di transizione ha riaperto le indagini. L’11 ottobre rappresenta dunque sicuramente una pietra miliare in questa vicenda che ha mostrato quanto può essere incisivo e potente un uomo solo nella storia del suo paese.
Ma che ha mostrato anche quanto possano restare isolati e vulnerabili – accadde lo stesso 28 anni prima con il leader congolese Patrice Lumumba – quelli che osano uscire dai binari dell’asservimento e dei poteri forti. E che ha mostrato, infine, che il paese “degli uomini integri” (questo vuol dire Burkina Faso, nome assegnato dallo stesso Sankara a quello che prima era l’Alto Volta) in 37 anni non ha dimenticato, non si è arreso e ha atteso proprio questo momento.
Oggi il Burkina è un paese che combatte contro gli effetti del cambiamento climatico, la crescente presenza e violenza jihadista che sta coinvolgendo anche i bambini, che conta almeno un milione di sfollati e con un prodotto interno lordo che continua a scendere.
Ma questo processo è la prova dell’orgoglio di un paese. Un processo storico, da cui si attende che il risultato (anche se Compaoré non dovesse mai andare in prigione) sia esemplare. E almeno, simbolico. Intanto, simbolico è già il mese scelto per l’avvio del procedimento. Quello in cui si spense il sogno di Thomas Sankara.