Esponente del mondo pacifista, obiettore alle spese militari, impegnato in progetti di sviluppo in Africa e veterinario, l’autore ha anche il pregio di non mandarle a dire. E mette i punti sulle i fin dal prologo di questa ricognizione storica sul pacifismo di casa nostra, che è sperabile faccia fiorire un bel dibattito. Dai primi anni ’80 «il pacifismo italiano è cresciuto ma non è riuscito a contrastare in maniera rilevante le vicende belliche vicine e lontane.
Per farlo deve abbandonare la propria aura profetica e dimostrare, con risultati concreti, che la nonviolenza non è un nobile stile per anime belle, ma un’opzione funzionale molto più efficiente dello strumento militare». In riferimento a Beati i costruttori di pace e alle Arene (la prima si è svolta il 4 ottobre 1986), riconosce la rilevanza ma anche i limiti di quel movimento.
Si è lavorato sulla corretta informazione e sull’educazione alla mondialità, ma non si sono prese in «considerazione realizzazioni pratiche, ben precise e misurabili, da attuare nel concreto». Restando dunque sul concreto, l’autore propone di evitare di essere complici della “guerra per il cobalto” in Rd Congo, comperando smartphone (il cobalto è componente essenziale delle batterie) solo da imprese sociali che facciano parte di una filiera controllata che garantisce i diritti dei lavoratori in tutte le fasi.
Ma perché l’operazione sia efficace deve essere accompagnata da una campagna internazionale di pressione.