È un tema che viene da lontano quello del rapporto polizia e persone migranti. Ha radici profonde. L’estremità di queste ha a che fare con la storia della mobilità umana. Quella delle masse contadine impoverite che, quando cominciano i processi di urbanizzazione, iniziano a trasferirsi in città, con il rischio di costituire un problema. Soprattutto se e quando, invece di diventare operose, vanno a ingrossare il numero degli “oziosi” e dei “vagabondi” che con il loro vivacchiare, mendicare o, peggio, delinquere, costituiscono un problema di ordine pubblico. Di qui le prime leggi sul vagabondaggio, anticipatrici di una matrice di lettura dei meccanismi di criminalizzazione che non abbiamo, nei secoli, mai perso.
Una matrice che si rafforza subito con il cambiamento sociale prodotto dall’economia capitalista, che vede crescere con la mobilità il ricorso a processi di criminalizzazione che dovevano essere governati. Le nuove forze sociali, soprattutto quelle più povere, dovevano essere gestite, per evitare che diventassero focolai di malcontento, di rivolte. Così, «nel XIX secolo, l’apparato moderno della sicurezza urbana ha assunto la forma che ha ancora oggi, come apparato di polizia sociale, finalizzato a governare i rischi e i pericoli provenienti dal modello di sviluppo economico adottato nei paesi occidentali».
Gli strati marginali e impoveriti dal capitalismo, quelli che per necessità avrebbero potuto ad esempio violare la proprietà privata (le odierne occupazioni), dovevano essere identificati. Un’identificazione che col tempo si evolve fino all’espulsione, all’allontanamento. Perché il decoro va protetto. Ieri come oggi (vedi il daspo urbano, il vietare l’elemosina, il bivacco). Così le figure di persone dedite all’ozio e vagabondaggio vengono «trasformate in vere e proprie fattispecie di reato». La povertà è una colpa e va perseguita, spesso in via preventiva.
Inizia a farsi largo la distinzione tra i poveri meritevoli e non di aiuto. Un distinguo che produce il concetto di alterità che poi si amplifica quando l’altro è addirittura straniero. All’alterità si aggiunge la razzializzazione. Lo stigma è dunque doppio: povero e migrante. In un richiamo a un doppio controllo: sociale e dei confini. Quest’ultimo messo in atto a nome di un’altra alterità, quella dettata dalla nazionalità.
A gestire questo doppio controllo, le forze di polizia che alimentano questo modello di governo sulle povertà e le migrazioni. Anche qui come in passato subentra l’idea del meritevole e no. «Riposizionare i confini dell’appartenenza è possibile grazie all’uso che la polizia fa del potere discrezionale in condizioni di bassa visibilità, potendo scegliere di non arrestare anche laddove, invece, secondo la legge dovrebbe/potrebbe». Questo accade perché spesso la legge è vaga e dove non vi è chiarezza la discrezionalità incombe. Una discrezionalità che poi risente anche del sentire comune di una popolazione che sempre più ha finito per associare la propria sicurezza all’allontanamento dell’altro da sé.
Capita infatti sempre più spesso che la legittimazione del proprio operato la polizia la faccia derivare dalla risposta a delle preoccupazioni di una popolazione residente che si sente insicura. Il fatto che molti meccanismi di allontanamento ed espulsione non funzionino e che le persone migranti irregolarizzate e indeportabili finiscono per diventare delle soggettività che abitano i nostri contesti urbani è comunque strumento di cambiamento che interroga le nostre società.