La sociologa Roberta Ricucci continua il suo percorso di analisi e ricerca. Dopo Cittadini senza cittadinanza. Immigrati, seconde e altre generazioni: pratiche quotidiane tra inclusione ed estraneità la questione dello“ius soli”, un libro pubblicato sempre con Seb27, nel 2018, torna ad ascoltare ed esplorare la realtà dei figli e figlie dell’immigrazione. Persone che sono a tutti gli effetti protagoniste di un paese plurale, che la politica fatica a cogliere.
Un mondo cui si continua a cercare di mettere un’etichetta per incastrarlo in una definizione che mai gli appartiene per davvero. Perché i giovani sono così: quando li hai definiti, loro sono già altro. In quell’etichetta, che spesso li stigmatizza, non ci sono più. A volte, nonostante tutto lo sforzo di comprensione, non ci sono mai stati.
Per questo, Ricucci spiega come lo sforzo deve appartenere non solo al mondo della scuola, che per primo si è messo in discussione, cercando di trovare strade nuove, con la consapevolezza che la prima cittadinanza passa attraverso la lingua, che è strumento che deve comprendere anche il pensiero. Ma deve essere collettivo, deve riguardare la società intera, soprattutto quella educante, che non è solo e necessariamente scolastica. Anzi.
Questo universo multiforme, guardato con un sospetto maggiore, rispetto allo sguardo che ha accompagnato l’arrivo dei genitori, continua a essere percepito straniero. Nonostante sia figlio di un’immigrazione che non gli appartiene. Parte di un mosaico composito in cui rientrano sia coloro che sono ancora senza cittadinanza, sia coloro che la cittadinanza l’hanno conseguita.
Non basta che le e gli “italiani di fatto” ma non “di diritto”, come spesso vengono raccontati, crescano in simbiosi con i loro coetanei, ne condividano lingua, stile di vita, tratti culturali. E, Ricucci lo sottolinea, lo si vede nell’inserimento nel mercato del lavoro, «aspetto chiave della buona riuscita di efficaci percorsi di integrazione». Il problema è che queste identità nuove sono troppo poco studiate come potenziale giovanile, continuano a essere oggetto di ricerca in quanto immigrate.
È come se, nonostante la loro crescita, vengano sempre viste come realtà legate alla famiglia d’origine. «Raramente – racconta una ragazza – mi chiedono quale lavoro voglio fare. Forse danno per scontato che noi figli di immigrati non abbiamo idee». Eppure c’è tutto un mondo dell’associazionismo che racconta l’interesse attivo e anche politicamente impegnato di giovani che vogliono conquistare spazi di riconoscimento e protagonismo; che ambiscono a essere interlocutori di istituzioni e scuole, di realtà territoriali e di coesione sociale.
Ma poi succede che quando sono vincenti, come capitò a Mahmood a Sanremo nel 2019, la domanda sia: può un giovane figlio di immigrazione egiziana rappresentare la musica italiana? (la madre sarda non faceva curriculum).