La radio compie 100 anni. E li compie anche in Africa. La prima trasmissione? Proprio 100 anni fa, anzi ancora prima, visto che la prima trasmissione ufficiale sarebbe avvenuta il 18 dicembre 1923 a Johannesburg, in Sudafrica. Un “esperimento” che avrebbe fatto la storia.
In Africa la radio rimane il mezzo principale di informazione, intrattenimento, passaggio di comunicazioni. Con un ascolto compreso tra il 60 e l’80% di quel miliardo e 400 milioni di abitanti del continente. Non c’è luogo – in una grande metropoli come nel più isolato villaggio rurale – dove non ce ne sia qualcuna accesa. Spesso ad alto volume, a beneficio di tutti.
La storia della radio in Africa ha notevoli risvolti storici. È legata al colonialismo, alle lotte per l’indipendenza, alle politiche internazionali, al recupero delle lingue locali e persino ad eventi drammatici, come il genocidio in Rwanda.
La sua diffusione e il modo di usarla, riveste, dunque, un significato storico, assume rilevanza culturale, e fa riflettere sul potere politico e sull’impatto sociale che questo mezzo ha avuto (e ancora ha) nel continente.
Andiamo con ordine. Questa storia comincia con l’introduzione della radio al servizio degli interessi coloniali. Ne racconta bene il percorso lo studioso britannico Graham Mytton che sottolinea gli aspetti tecnici – ma soprattutto quelli politici – che ne hanno segnato l’uso e l’evoluzione.
Nell’Africa orientale, fu introdotta per la prima volta in Kenya nel 1927 mentre nell’Africa occidentale in Sierra Leone nel 1934. E fu proprio la diffusione del mezzo nelle colonie britanniche dell’Africa occidentale – Gambia, Sierra Leone, Gold Coast (oggi Ghana) e Nigeria – a segnare un punto di svolta.
Le trasmissioni, tramite servizi cablati, erano pensate e confezionate per gli ascoltatori africani. Le potenze coloniali – soprattutto Francia e Regno Unito – aumentarono le diffusioni dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale sia allo scopo di influenzare l’opinione pubblica sia per ottenere sostegno allo sforzo bellico.
Ma mentre gli inglesi trasmettevano anche in alcune lingue locali, la Francia trasmetteva solo in francese. Così, anche in questo caso, si distingueva il tipo di amministrazione delle due maggiori potenze coloniali: indirect rule per i britannici, assimilation policy per i francesi.
Dopo la guerra la diffusione delle radio continuò il suo incessante percorso con servizi di radiodiffusione nella maggior parte delle colonie. Spesso funzionali alle politiche interne. Come nel caso del Kenya, dove nel 1953 si intensificarono le trasmissioni nelle lingue locali durante lo stato di emergenza dichiarato l’anno prima per reprimere la rivolta dei Mau Mau.
Fatto è che però anche le popolazioni locali avevano intuito il potere di questo mezzo e cominciarono ad usarlo per le campagne e lotte per l’indipendenza.
Ed è così che si moltiplicarono le stazioni radio: e laddove le lotte erano più ardue, pensiamo ai paesi lusofoni, ma anche alla Repubblica democratica del Congo sotto il giogo coloniale belga, il mezzo radiofonico divenne un vero e proprio strumento di battaglia e propaganda. Stavolta a proprio vantaggio.
A metà degli anni ’50 fu fondata in Zambia la più antica stazione di liberazione dell’Africa, Radio Freedom, una stazione underground, che doveva sostenere il movimento di resistenza del Sudafrica. E in Angola l’espansione della radio si lega allo scoppio della guerra nel 1961 tra i movimenti di indipendenza e lo stato coloniale portoghese.
Come sottolinea questo breve saggio di The Conversation, con gli anni Sessanta del secolo scorso, cominciava l’epoca d’oro della radio nel continente, non a caso definita “il medium dell’Africa”. Anche se con il tempo lo stato, gli stati indipendenti, cominciano – soprattutto in alcuni paesi – ad esercitare un controllo: sulle reti, sulle trasmissioni, sugli stessi giornalisti.
Censura e limitazione della libertà di espressione sono i nuovi nemici della radio. Come per esempio in Zimbabwe (ma non è di certo l’unico caso) dove il governo controlla – e lo fa di fatto – la Zimbabwe Broadcasting Corporation.
La radio è stata utilizzata anche per promuovere fini politici nefasti. Come avvenne nel 1994 in Rwanda con la Radio Télévision Libre des Mille Collines, dove a tutte le ore venivano trasmessi discorsi di odio e incitazione alla violenza contro la minoranza tutsi.
Negli anni anche i governi africani hanno liberalizzato le loro economie e proceduto alla regolamentazione dei media, rilasciando licenze radiofoniche commerciali e comunitarie.
In Ghana, ad esempio – paese di circa 33 milioni di abitanti – nel 2022 si contavano 513 stazioni radio, tra trasmissioni pubbliche, commerciali, comunitarie, universitarie e straniere.
Di sicuro la radio è anche stata usata per servire gli interessi delle élite e per influenzare gli elettorati, soprattutto quella fascia di popolazione con bassa scolarizzazione, quella che rimane strettamente affezionata al mezzo radiofonico.
Alcune stazioni sono affiliate a interessi politici o commerciali e i crescenti attacchi ai giornalisti mettono a rischio la libertà e la diversità dei media (recenti eventi in Ghana, a questo proposito, lo testimoniano).
Ma la radio resiste, anche in questa nuova epoca legata al digitale, a Internet e alla crescita e diffusione dei podcast. Si aprono nuove sfide, è chiaro, ma la convergenza digitale è già un fatto per le giovani generazioni. L’amore mai interrotto per la radio – in questo continente – farà il resto.