Il 6 novembre le forze politiche dell’opposizione, qualche partito della maggioranza e ampi settori della società civile daranno vita a una pacifica mobilitazione nazionale contro la nuova Commissione elettorale nazionale indipendente (Ceni) e per opporsi a quella che definiscono la «deriva autoritaria» del presidente Félix Tshisekedi.
A innescare la protesta un fatto accaduto il 22 ottobre quando Tshisekedi ha firmato il decreto di nomina di 12 dei 15 membri della Ceni, compreso il presidente Denis Kadima che due delle otto maggiori denominazioni religiose (che per legge devono esprimere il presidente della Ceni) ritengono vicino a Tshisekedi e dunque non indipendente.
Hanno detto no a Kadima la Chiesa cattolica e i protestanti della Chiesa di Cristo in Congo; si sono espressi favorevolmente la Chiesa kibanguista, la Chiesa ortodossa del Congo, la Comunità islamica, la Chiesa del risveglio del Congo, l’Esercito della salvezza e l’Unione delle Chiese indipendenti del Congo.
La Ceni è composta di 15 membri: 6 espressi dalla maggioranza di governo, 4 all’opposizione, 4 dalla società civile, più un presidente super partes. La scelta dei membri, e in particolare del nuovo presidente, avrebbe dovuto avvenire senza strappi e trovare un ampio consenso. Così non è stato e ad oggi mancano all’appello 3 membri che devono essere espressi dall’opposizione e la figura del presidente è divisiva.
Ci si chiede in che modo una Commissione elettorale che nasce zoppa possa gestire le tappe che devono portare al voto nel dicembre del 2023. Si tratta di rivedere la legge elettorale, di avviare un processo di identificazione e iscrizione degli elettori, di stabilire un calendario elettorale che rispetti i termini costituzionali.
Eppure le candidature della nuova Ceni sono state valutate dalla Commissione parlamentare mista maggioranza-opposizione, convalidate dall’assemblea nazionale e ratificate da Tshisekedi. Inoltre il 26 ottobre, i 12 membri hanno prestato giuramento davanti alla Corte costituzionale. Tshisekedi sembra determinato a non cedere.
Ritorno al passato
Del resto la posta in gioco è alta. Nella Repubblica democratica del Congo, chi controlla la Commissione elettorale nazionale controlla lo svolgimento e anche l’esito del voto. Lo si è visto in occasione delle elezioni generali del 2018 quando la Ceni riuscì prima a rinviare di due anni il voto (che doveva svolgersi nel 2016) e poi smentì i dati racconti da decine di migliaia di osservatori che davano vincitore Martin Fayulu (leader della coalizione dell’opposizione Lamuka) e consegnò la presidenza a Félix Tshisekedi e il parlamento a Joseph Kabila.
Sono trascorsi meno di tre anni, già si pensa alle presidenziali e parlamentari del 2023 – Tshisekedi si già candidato – e la composizione della Ceni sta innescando una crisi politica che può avere esiti negativi sulla tenuta della maggioranza di governo (gli alleati Kabila e Tshisekedi si sono detti addio lo scorso dicembre e il presidente ha raccolto i cocci e formato una nuova maggioranza) e anche sullo svolgimento del voto.
La comunità internazionale ha fatto sapere che è necessario trovare un consenso sulla composizione della Ceni, perché il consenso «costituisce un elemento importante per rafforzare la fiducia nel processo elettorale». I laici cattolici, i protestanti, la coalizione dell’opposizione Lamuka e anche il Fronte comune per il Congo di Joseph Kabila si preparano a scendere in piazza.
E qualche crepa si sta aprendo anche nella maggioranza di governo: Moïse Katumbi, leader del partito Insieme per la repubblica, sta valutando se togliere o meno a fiducia a Tshisekedi.